sarajevo_sunset_14083023776

Bosnia, l’inizio della guerra diventerà festa nazionale?

Domenica 25 settembre i cittadini della Republika Srpska, una delle due due entità territoriali che compongono la Bosnia-Erzegovina, si sono espressi con un referendum a proposito dell’istituzione della Giornata della Republika Srpska, una festa che ricorda la nascita dello stato dei serbi di Bosnia avvenuta nel 1992. Il risultato non lascia spazio a dubbi, ma sicuramente a contraddizioni: il 99,8% di voti a favore contrasta con un’affluenza del 55,8%, decisamente sotto le aspettative.

I cittadini dell’entità serba hanno quindi deciso di appoggiare un voto simbolico privo di qualsiasi valore legale, essendo stato dichiarato inapplicabile dalla Corte costituzionale e dell’Alto rappresentante, ma con meno convinzione e meno entusiasmo rispetto al passato. Se per il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik si tratta di una «gloriosa pagina della nostra storia», il presidente bosniaco Bakir Izetbegović ha invece parlato di «un attacco al sistema istituzionale creato con agli accordi di Dayton».

Il timore di alcuni osservatori è legato alle possibili conseguenze di un aumento della tensione tra Sarajevo e Banja Luka in un periodo nel quale la Bosnia-Erzegovina sta cercando di accelerare il proprio passo verso l’adesione all’Unione europea.

Lo stesso Milorad Dodik ha annunciato la volontà di andare al voto nel 2018 per la secessione della Republika Srpska, ma secondo lo storico Eric Gobetti, che di recente ha attraversato il territorio bosniaco per comprendere più a fondo cosa pensi la popolazione, è difficile che questo voto smuova una situazione pressoché congelata da vent’anni.

Il 9 gennaio è una data neutrale?

«Sicuramente no: non è una data neutrale, è stata scelta perché è la data di fondazione della repubblica separatista dei serbi prima ancora dell’inizio della guerra, quindi in qualche modo una data che diede la spinta decisiva verso il conflitto. Ma non è solo questo: il problema è che in Bosnia-Erzegovina c’è una netta separazione tra due entità, quella serba e quella bosniaca. Si tratta di una separazione strutturale, che non vede una conclusione perché fa parte degli accordi di Dayton che hanno segnato la fine della guerra, e questo è soltanto uno dei tanti passi che contribuiscono non tanto a creare nuove tensioni o a spingere verso un conflitto, ma a mantenere lo status quo, che in fondo fa comodo agli attuali politici nazionalisti, sia nella Republika Srpska, ma anche nella parte croato-musulmana del Paese».

Quando si parla del 9 gennaio si dice che potrebbe mettere sotto pressione l’equilibrio di un Paese come la Bosnia che sicuramente stabile non è. Lei condivide questa lettura?

«No. Sono appena tornato da un lungo viaggio in Bosnia, ho visitato gran parte delle realtà bosniache e non ho percepito una situazione di tensione che possa spingere verso un conflitto. Ho percepito, questo sì, una totale disaffezione verso la politica, che in questo Paese è sempre e solo politica nazionale. Proprio per la struttura stessa della Costituzione bosniaca stabilita a Dayton ci si può esprimere pubblicamente soltanto in quanto appartenenti alle tre nazionalità del Paese, per cui non c’è un dibattito politico; mi facevano notare che domenica prossima ci saranno le elezioni amministrative e che in molte località bosniache che non c’è nemmeno la campagna elettorale vera e propria, perché di fatto i candidati delle singole nazionalità sanno già di vincere in quanto rappresentanti della propria nazionalità. Non esiste politica di alcun genere, e questo spinge a una disaffezione verso la partecipazione, una accettazione della realtà senza possibilità di uscire dalla situazione. È un equilibrio precario, ma in realtà per certi versi anche molto stabile, perché la costituzione di Dayton fa sì che questo Paese non possa, nemmeno se lo volesse, uscire da questo meccanismo di contrapposizione fra le tre nazionalità. Il problema è che, per contro, non porta da nessuna parte e rende totalmente ingovernabile un Paese che infatti è completamente immobile».

Ogni nazionalità in Bosnia fa riferimento a una propria storia e una propria tradizione. Ancora oggi si vedono tentativi di scrivere la storia e l’attualità in modo esclusivo?

«Sì, è un Paese in cui i simboli hanno un’importanza fondamentale, è un Paese separato anche in maniera simbolica, e questo anche viaggiando per la Bosnia si vede in maniera esemplare. Anche se i confini tra le diverse entità non sono segnalati sul terreno, di fatto vengono marcati dalle bandiere e dai simboli storici, come i monumenti, le statue, i nomi delle vie, oltre all’utilizzo dei caratteri cirillici nella zona serba. Ma l’elemento più evidente per chi ha l’occhio esperto è la distinzione tra le birre: nella zona serba trovi solo birre serbe, nella zona croata solo birre croate, nella zona musulmana solo birre “musulmane”. Questo lo mettiamo tra virgolette, perché i musulmani di Bosnia essendo in gran parte laici bevono birra come gli altri abitanti del Paese».

Torniamo sul voto di domenica: effettivamente sposterà qualcosa o tutto rimarrà come prima, con la semplice istituzionalizzazione per una comunità di una festività che già viene celebrata?

«Credo che tutto rimarrà come prima. Il vero discrimine è il caso in cui in qualche modo venisse accettata la richiesta da parte serba, fatta più volte, di promuovere un referendum per l’indipendenza dell’entità serba. La proposta è sempre stata respinta perché quello davvero metterebbe in discussione gli equilibri del Paese e peraltro avrebbe molte probabilità di successo, ma per il resto sono soltanto elementi simbolici che rimarcano differenze che comunque già ci sono sul terreno tra le diverse entità».

Questa distanza si limita alla politica o si vede anche nella vita quotidiana?

«Diciamo che sono differenze più simboliche, di carattere politico, che si rivolgono nel senso della cattiva politica, che identifica soltanto le differenze nazionali. Sul terreno però la gente vive concretamente in maniera molto diversa. Sono stato da poco a Srebrenica e mi ha veramente colpito il fatto che oggi quella città, luogo simbolo del peggior massacro in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, è un luogo in cui le comunità musulmana e serba convivono pacificamente e tranquillamente in un contesto che potenzialmente potrebbe essere il più drammatico e difficile dopo il conflitto. Invece concretamente la gente vive, fa affari, si sposa, si innamora. Queste differenze nazionali sono volute e spinte dai politici, ma nella vita quotidiana non sono così rilevanti».

Immagine: By Michał Huniewicz – Sarajevo sunset, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=33330205