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Hotspot, strutture che poggiano sul nulla

Il 3 novembre l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International ha pubblicato un rapporto nel quale, attraverso testimonianze e racconti, viene messo in luce l’insieme delle violenze e delle violazioni di diritti commesse ai danni di migranti da organi di polizia e da varie realtà dello stato nelle prime fase dell’arrivo dell’identificazione dei migranti all’interno dei cosiddetti hotspot.

«L’approccio hotspot», come viene definito nel rapporto, prevede che l’Italia registri le impronte digitali a tutti i nuovi arrivati, ma coloro che vogliono chiedere asilo in altri Paesi, magari perché hanno legami familiari altrove, preferiscono evitare questo passaggio per non rischiare di essere rimandati in Italia in base al regolamento di Dublino. Amnesty racconta che «sotto le pressioni dei governi e delle istituzioni dell’Unione europea, l’Italia ha adottato misure coercitive per prendere le impronte digitali». Questo ha portato a «denunce coerenti e concordanti di arresti arbitrari, intimidazioni e uso eccessivo della forza fisica per costringere uomini, donne e anche bambini appena arrivati a farsi prendere le impronte digitali».

Secondo il governo italiano, in particolare secondo il capo Dipartimento immigrazione del Viminale, Mario Morcone, niente di quanto viene raccontato nel rapporto è vero, ma, anzi, tutto viene definito «cretinaggini». Allo stesso modo, il capo della polizia Franco Gabrielli ha contestato il lavoro di Amnesty e ha affermato che non sono mai stati usati metodi violenti. Eppure, secondo Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, «non è possibile liquidare questo rapporto in questo modo, almeno per due motivi».

Qual è il primo?

«Prima di tutto parliamo di un rapporto redatto sulla base di molti mesi di lavoro e molte interviste da parte di Amnesty International, che è riconosciuta in tutto il mondo come come la più importante organizzazione di tutela dei diritti umani e i cui rapporti sono sempre caratterizzati da precisione e rigore scientifico. Ecco, sul piano metodologico reazioni di questo tipo sono inaccettabili, perché indicano chiaramente una mancanza di argomenti e non dovrebbero mai avvenire nei Paesi democratici: siamo abituati a leggere reazioni di questo genere da parte di governo autoritari, che magari impediscono alla stessa organizzazione di lavorare nel proprio Paese, ma da parte del governo italiano è veramente uno scivolone senza precedenti».

Ci sono problemi anche sul piano del merito?

«Sì, questo è il secondo motivo per cui non possiamo fare finta di niente: nel merito il rapporto mette in luce un quadro estremamente difficile su questi luoghi, su queste strutture e su queste procedure, che in Italia sono effettivamente state avviate da pochi mesi ma che hanno subito dato dei gravi problemi di funzionamento, evidenziando difficoltà vecchie e nuove proprie della procedura italiana. Noi stessi abbiamo avuto modo di riscontrarlo in numerose occasioni».

Né il governo, né l’Unione europea hanno riconosciuto l’esistenza delle violazioni messe in luce da Amnesty International. Oggi quali enti indipendenti possono accedere agli hotspot e controllare quello che vi accade?

«Nessuno, e questo è il grande problema. Il fatto è che non è neppure facile definire che cosa siano queste strutture, e l’argomento è molto sfuggente, nel senso che gli hotspot non sono né una struttura, perché non sono disciplinati da alcuna norma specifica, né una procedura, perché quella per l’identificazione dei migranti e per la formalizzazione delle domande di protezione internazionale è già disciplinata dalla legge».

E quindi che cosa sono?

«È difficile dirlo. Se cerchiamo il termine hotspot non lo troviamo in nessun testo normativo. Nelle intenzioni, gli hotspot dovrebbero essere una modalità operativa, sostanzialmente innocua, per individuare con maggiore precisione e velocità i destinatari dei programmi di ricollocamento nell’Unione europea, e questa è la motivazione ufficiale con la quale l’approccio hotspot è nato, cioè come metodo di lavoro e nient’altro. Tuttavia, quello che si è visto è che sin da subito si è trasformato in qualcosa di diverso, cioè una riforma di fatto ma non di diritto, e cioè una riforma in cui l’hotspot diventa contemporaneamente una nuova procedura e un nuovo luogo: una procedura per selezionare in via del tutto provvisoria e sommaria chi ha diritto ad accedere alla protezione e chi non ce l’ha e una struttura, come se si trattasse di luoghi diversi dai centri di primo soccorso e di prima accoglienza, ma che in realtà non lo sono e non lo possono essere».

Ci rimangono altri modi per definire gli hotspot se non come dei vuoti legislativi?

«Purtroppo no, e non è una novità: in Italia abbiamo una mancanza di regolamentazione per questi luoghi. Si tratta di spazi che la legge definisce in maniera troppo generica e in cui non si capisce neppure quali siano i diritti delle persone che vi sono presenti e che di fatto spesso vengono trattenute in assenza di qualsiasi norma. Di fatto stiamo parlando di strutture chiuse nelle quali le persone vengono trattenute anche per molti giorni e nelle quali è sistematicamente impedito l’accesso a qualunque organo di controllo esterno e indipendente».

Questa impossibilità di accedere vale anche per Asgi?

«Sì, le strutture sono totalmente opache, e non è mai stato possibile nella storia italiana accedere a questi luoghi in maniera adeguata, senza che le visite fossero organizzate da parlamentari, magari annunciate venti giorni prima, con tutto quello che significa. Queste non sono vere misure di controllo. Un’organizzazione di tutela che anche non ha un rapporto convenzionato con lo Stato, cioè che non viene stipendiata dal governo ma vuole svolgere il proprio lavoro in via del tutto autonoma dovrebbe avere diritto di accedere a questi luoghi, ovviamente in maniera ordinata, in maniera tale da non interferire negativamente con la gestione degli stessi, ma non è mai avvenuto nella storia italiana».

L’esistenza di queste strutture è stata giustificata con l’emergenza dello scorso anno; dobbiamo aspettarci che diventino parte di un sistema organico?

«Purtroppo fanno già parte di un sistema organico, nel senso che se si fa riferimento alla norma italiana bisogna tenere presente che nel decreto 142 del 2015, la norma più recente che disciplina la materia, il riferimento a queste strutture è ancora quello alla cosiddetta “legge Puglia” del 1995, che non esiste nemmeno perché in realtà era un provvedimento di emergenza limitato all’estate 1995 in una determinata regione, appunto la Puglia, quindi è un rinvio a una legge che non c’è. È un rinvio al nulla».

E in queste normative, più o meno reali, si dice qualcosa sull’organizzazione di questi centri?

«No, non viene detto quali siano i modi in cui organizzare questa tipologia di centri. Tuttavia abbiamo avuto procedimenti nei quali è stato dimostrato che in questi luoghi sono state violate delle norme fondamentali quali soprattutto il trattenimento illegittimo e anche, purtroppo, varie forme di violenza. Una delle sentenze più importanti di cui l’Italia è stata oggetto è un recente pronunciamento della Corte europea dei diritti umani, del 1 settembre dell’anno scorso, che riguardava il centro di Lampedusa alcuni anni fa. Non c’erano gli hotspot, ma la struttura era la stessa, e la Corte europea ha condannato l’Italia sotto tutti i profili. In particolare voglio ricordare la detenzione arbitraria e l’impossibilità di un ricorso effettivo, l’assunzione di misure di restringimento collettive e, ultima ma non meno grave, anzi forse la più grave di tutte, la violazione dell’articolo 3 della convenzione, cioè la tortura e i trattamenti disumani e degradanti, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto essere stati praticati in quella struttura».

Immagine: via Flickr