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Un voto sul futuro della Turchia

 Manca soltanto un mese al referendum con il quale la Turchia deciderà il proprio assetto costituzionale, scegliendo tra l’attuale sistema parlamentare e un passaggio a un modello presidenziale. Il 16 aprile per Ankara potrebbe cominciare una nuova fase della propria storia, caratterizzata da un ulteriore rafforzamento o da un indebolimento del presidente, Recep Tayyip Erdogan.

Proprio per il suo carattere decisivo, il voto di aprile è caratterizzato da un’elevata tensione, che si traduce in un conflitto permanente dei vertici della politica turca con diversi Paesi europei, in particolare con Germania, Svizzera e Paesi Bassi.

Secondo i sostenitori della riforma, il fallito colpo di Stato del luglio del 2016 ha evidenziato la necessità di un governo più forte, mentre per gli oppositori il modello proposto da Erdogan va a minare il sistema della separazione e del bilanciamento dei poteri che ha permesso alla Turchia di diventare un Paese moderno nel corso del Novecento.

Lorenzo Marinone, caporedattore di East Journal per il Medio Oriente, spiega che la riforma «prevede un presidenzialismo estremamente forte e tutta una serie di misure che vanno nella direzione dell’accentramento dei poteri nell’unica figura del presidente». Stiamo parlando di un presidente esecutivo, quindi non solo una figura cerimoniale ma una molto simile al nostro presidente del consiglio, quindi anche a capo del governo. «Oltre a questo – prosegue Marinone – ci sono tutta un’altra serie di misure secondo cui anche il controllo del potere giudiziario passa in molti casi dal governo e dalla figura del presidente. È una riforma su cui lunedì la commissione di Venezia, che è un organo del consiglio d’Europa ha espresso in un documento puntuale tutta una serie di perplessità, perché c’è il timore che vengano meno alcuni pilastri dei sistemi democratici, fra cui la separazione dei poteri».

È un referendum su cui Erdogan sta investendo moltissimo. Possiamo considerarlo forse più un voto sulla sua figura e sul suo futuro, più che sull’assetto istituzionale della Turchia?

«In parte sì. Innanzitutto bisogna dire che Erdogan punta a trasformare la Turchia in un presidenzialismo forte da molti anni, è un suo obiettivo politico da almeno un decennio, e quindi dal suo punto di vista e dal punto di vista dell’Akp, il partito di governo, sarebbe il coronamento del percorso politico».

Un referendum dall’esito già scritto?

«No, per niente. Tutta una serie di sondaggi continuano da tempo a dare il “sì” e il “no” distanti solo pochi punti, quindi un risultato assolutamente in bilico con, di norma, il “no”, quindi la bocciatura del referendum, leggermente in vantaggio. Dal punto di vista di Erdogan questa è una situazione molto pericolosa, perché è vero che, essendoci pochi punti di distanza, parliamo di un risultato che si può provare a ribaltare, ma è comunque rischioso. Le uscite, le parole forti e le prese di posizione importanti e strumentali di questo periodo, come molto probabilmente è tutta questa storia dei problemi che ci sono con diversi stati europei, come l’Olanda, l’Austria, la Svizzera e la Germania, sembrano mirati a cercare in qualche modo di recuperare consenso in patria. Alzare i toni e giocare la carta del nazionalismo può essergli utile, perché la modifica sulla costituzione era stata approvata in Parlamento proprio grazie ai voti del partito nazionalista, ma oggi l’elettorato di quel partito per oltre la metà non sarebbe assolutamente orientato a votare a favore del referendum. Queste mosse possono anche avere tutta una serie di ricadute interne molto importanti da questo punto di vista per far prevalere il sì».

In sostanza Erdogan si propone come rappresentante dei turchi contro un mondo ostile. Nelle relazioni con l’Unione europea, Erdogan ha detto più volte che se le relazioni non dovessero migliorare potrebbe far saltare l’accordo sui migranti del marzo 2016. Ma in concreto che cosa può fare?

«Molto, nel senso che quell’accordo si basa di fatto sulla volontà di un Paese, la Turchia, di far funzionare il sistema di controllo della sua frontiera. Nel momento in cui, anche senza la rottura formale dell’accordo, la Turchia decidesse di allentare quei controlli, potrebbe iniziare a usare i flussi migratori come uno strumento di pressione. Non dimentichiamo che la situazione in Grecia, dall’altra parte dell’Egeo, è di grave difficoltà, Atene è fortemente in affanno e ci ricordiamo tutti quanti quel che è successo lungo la “rotta balcanica”, abbiamo tutti negli occhi le immagini di queste colonne di profughi, di queste masse umane che si spostano e la debolezza politica dell’Europa nel rispondere a questo fenomeno. Quello che può fare la Turchia senza spendersi troppo dal punto di vista politico, ma semplicemente allentando i controlli, può avere degli effetti notevoli sulla politica europea».

Quali mosse ci dobbiamo aspettare in questo mese?

«Innanzitutto attualmente è in corso una gara in Turchia a chi gioca la carta del nazionalismo meglio degli altri: in questi giorni non sono solo i rappresentanti del governo o i deputati dell’Akp a fare esternazioni più o meno altisonanti, fatte di insulti o di argomentazioni, ma anche il Chp, cioè il Partito Repubblicano del Popolo, che è il principale partito di opposizione e che è per il “no” al referendum. Pensiamo che anche il Chp in questi giorni se l’è presa con alcune misure adottate dall’Olanda, tra cui soprattutto il fatto di aver impedito alla ministra per la Famiglia e gli Affari sociali turca di entrare all’interno del consolato turco di Rotterdam. Le dichiarazioni di Kemal Kiliçdaroglu, leader del Chp, vanno esattamente in questa direzione, quella del nazionalismo più marcato».

La questione curda è entrata in questo dibattito?

«Sì, è qualcosa che normalmente Erdogan fa quando vuole spingere sull’acceleratore e giocare la carta del nazionalismo, e in questo caso lo ha fatto anche nei rapporti con gli Stati europei. Per esempio una delle accuse che Erdogan ha lanciato esplicitamente alla Germania è di essere uno stato che protegge i terroristi, laddove in Germania sono presenti almeno un milione e mezzo di cittadini con passaporto turco e diritto di voto, molti dei quali curdi. In Germania ci sono organizzazioni curde di varia natura, ci sono anche membri del Pkk che storicamente da decenni sono anche di stanza in Europa non solo in Germania, ma c’è ovviamente una comunità curda che è estremamente variegata, proprio com’è estremamente variegata la comunità curda di Turchia. Accusare la Germania di essere uno Stato che protegge il terrorismo è di nuovo un attacco di marca nazionalista, che all’interno dei confini nazionali riesce a smuovere effettivamente qualcosa. Se il distacco nel referendum è di pochi punti, è possibile che tutte queste polemiche di questi ultimi giorni abbiano probabilmente ribaltato quelle che erano le previsioni sino alla scorsa settimana. Il “sì” potrebbe aver raccolto un vantaggio decisivo».

A distanza di otto mesi dal fallito golpe di luglio i toni sono sempre più alti. Questo può essere visto anche come un segno di una debolezza del modello?

«Molto probabilmente sì. Tuttavia non so se si tratti di una debolezza strutturale: in questi otto mesi Erdogan ha utilizzato in modo massiccio tutta una serie di strumenti di polizia e giudiziari, con l’arresto di centinaia di migliaia di persone, quindi da questo punto di vista controllando i servizi segreti, controllando la polizia, avendo epurato gran parte dell’esercito, riesce ad avere un effettivo controllo delle istituzioni statali.

Dall’altro lato però ci sono segnali molto diversi. Porto un esempio di pochi giorni fa: su Hurriyet, che è un giornale molto importante turco, è apparso un articolo in cui si dava conto di dissidi all’interno dei vertici militari dell’esercito e di una certa insoddisfazione da parte di alcune componenti dell’esercito verso l’atteggiamento di Erdogan e più in generale la direzione in cui il presidente sta portando il Paese. Ecco, è bastato quell’articolo per far licenziare il direttore di Hurriyet, segno che basta un articolo affinché ci sia della preoccupazione nelle istituzioni e nel governo. Questo significa che più si adotta un modello autoritario, più cresce anche il livello di paranoia con cui deve convivere chi è al governo. La Turchia in questo senso potrebbe assolutamente non fare eccezione».

Immagine: via Flickr – Lassi Kurkijärvi