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Il decreto Minniti-Orlando passa al Senato

Allo scoccare del mezzogiorno di mercoledì 29 marzo, il Senato ha approvato l’emendamento finale del decreto legge Minniti-Orlando, dal titolo “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Attraverso questo voto di fiducia, i ministeri dell’Interno e della Giustizia intendono riformare il sistema del diritto d’asilo in Italia e quello dei rimpatri di chi non ha ottenuto, o non ha potuto richiedere, la protezione.

Dare un giudizio globale su questo decreto è molto complesso, anche perché, andando al di là dei dubbi su un’idea di urgenza che sembra essere in contrasto con la dimensione strutturale dei fenomeni migratori, sono molti i cambiamenti dei quali è difficile prevedere le conseguenze.

In Italia, il sistema della gestione delle migrazioni e dell’accoglienza è ancora oggi in uno stato di emergenza permanente nel quale è entrato prima ancora degli spostamenti di massa dal Nord Africa cominciati nella primavera del 2011. Da allora infatti non ha saputo ripensare a se stesso, alimentando una percezione di pericolo che, a guardare i flussi di persone e le storie umane di chi raggiunge le nostre coste non sembra essere confermata dai fatti. Con questo provvedimento il governo dichiara di voler risolvere alcune inefficienze del sistema, ma non sembra mettere in discussione il paradigma sul quale si sono basati gli ultimi vent’anni di leggi sul tema.

Innanzitutto, con il decreto legge si istituiscono 26 sezioni specializzate dei tribunali dedicate alle richieste d’asilo e ai rimpatri e formate da magistrati dotati di una profonda conoscenza del fenomeno migratorio. Lo scopo è quello di velocizzare il procedimento di riconoscimento del diritto d’asilo, ma su questa idea pende un dubbio di legittimità: secondo i critici, infatti, si entra in contrasto con l’articolo 102 della Costituzione italiana, che recita che «non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura». Formalmente, la questione è controversa, perché la concessione o il diniego della protezione internazionale non rappresentano, per i giuristi, una materia vera e propria, ma soltanto una parte del diritto dell’immigrazione, ma è sul piano dell’utilità che i dubbi sembrano più concreti. Secondo Gianfranco Schiavone, avvocato dell’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, «le sezioni specializzate non servono, anzi la competenza su questa materia dovrebbe essere diffusa e attribuita al tribunale del luogo dove il richiedente ha suo domicilio, perché secondo noi bisogna avvicinare anche fisicamente la giurisdizione al richiedente. Siamo di fronte a uno scenario in cui il numero dei rifugiati sarà sempre maggiore nel nostro paese, quindi è abbastanza irragionevole pensare che proprio in questo momento si vada a limitare il numero dei giudici che si occupano di questa materia. Come se fosse un fenomeno di nicchia e non una materia che investirà il nostro ordinamento in maniera sempre più ampia». Di segno opposto la visione del governo italiano, che ritiene invece che una maggiore specializzazione possa rendere più rapida e certa la decisione.

Sempre nel nome della velocità, con il decreto appena approvato viene abolito il secondo grado per i richiedenti asilo. L’intenzione era già stata espressa nel 2016 dal ministro della Giustizia durante un’audizione davanti al comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen. Con questa proposta si cerca di superare lo scoglio del grande numero di ricorsi ai quali non viene data risposta, anche se parlare di “emergenza profughi” nei tribunali è statisticamente sbagliato. Infatti, sono meno di 100.000 i ricorsi per richieste di asilo pendenti rispetto a un arretrato civile che conta poco meno di 4 milioni di procedimenti in attesa. Tuttavia, la proporzione tra i ricorsi esaminati e quelli pendenti è abbastanza scoraggiante, perché si ritiene, in assenza di dati precisi, che soltanto una richiesta su 15 venga trattata in meno di 6 mesi. In ogni caso, se confrontato con quella del processo civile, la durata delle procedure per accertare lo status di rifugiato è decisamente inferiore: per legge è di sei mesi e la media del 2016 si attesta sui 167 giorni, quasi 6 volte più breve rispetto al contenzioso civile. Con l’eliminazione del secondo grado di giudizio cambia anche la struttura dell’esame, che da “rito sommario di cognizione” diventerà un passaggio camerale senza udienza, nel quale al giudice verrà messa a disposizione la registrazione video del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale. Più che sull’eliminazione dell’appello, è su questo aspetto che Asgi ha mosso le sue critiche. In una nota pubblicata nell’agosto del 2016, si scriveva infatti che «siamo di fronte a un diritto soggettivo perfetto, costituzionalmente garantito, dove le valutazioni riguardano la vita delle persone […] il ricorso effettivo in questo modo non può essere assolutamente svolto. E la Direttiva qualifiche prevede che l’esame della domanda tenga conto di tutti gli elementi e ciò non è possibile a prescindere dall’ascolto del richiedente. Il giudice deve poter porre delle domande».

Tuttavia, l’aspetto forse più controverso dell’intero decreto approvato dal Senato in prima lettura riguarda la rete dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, attualmente composta da quattro strutture pienamente operative e una quinta in bilico: secondo il DL 13 questi luoghi dovranno diventare 20, distribuiti su tutto il territorio nazionale, e cambieranno nome, diventando Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio, con un totale di 1.600 posti.

Già a gennaio, interrogato da numerose organizzazioni impegnate per la difesa dei diritti umani, il ministro degli Interni, Marco Minniti, aveva promesso che le nuove strutture «non avranno nulla a che fare con quelle del passato perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza, non c’entrano con quelli che arrivano e che chiedono asilo, c’entrano con quelli che sono arrivati alla fine del percorso e il cui esito non è stato positivo». Nella stessa occasione Minniti aveva dichiarato che «l’idea è di parlare di piccoli numeri e che ci sia un potere esterno per quanto riguarda le condizioni di vita in quei centri, che sono appunto centri in cui bisogna sempre mantenere un livello molto alto di dignità della persona». Tuttavia, secondo l’avvocato Guido Savio, di Asgi, «l’idea sembra essere quella di riaprire questi centri senza mettere in discussione il modello su cui si fondano».

Nel 2016 sono stati rimpatriati 5.066 persone, meno di una ogni 7 rispetto ai 38.284 migranti irregolari presenti sul territorio: secondo il governo, la strategia avviata con questo decreto e con l’accordo Italia-Libia stipulato a febbraio, tra l’altro già bloccato dal tribunale di Tripoli, servirà a incrementare i rimpatri di cittadini stranieri nei prossimi mesi.

Al di là dell’efficacia, che è ancora da dimostrare, c’è sicuramente un problema di approccio: a fronte di un’Europa che si chiude sempre di più perché teme che in tempo di scarsa crescita siano i migranti a farla implodere, c’è un sud del mondo che cercherà sempre più spesso di attraversare le maglie della “fortezza Europa”, vista ancora oggi, in tempo di muri, come uno dei pochi luoghi nei quali sfuggire a guerre, persecuzioni e povertà.

Immagine: via Flickr – Climatalk .in