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Europa, verso un nuovo allargamento?

Lo scorso 6 febbraio la Commissione europea ha presentato la sua nuova strategia sull’allargamento dell’Unione europea. Nel documento, che riparte dal Discorso sullo stato dell’Unione tenuto nel settembre 2017 dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, si afferma che «se si vuole una maggiore stabilità, bisogna mantenere una credibile prospettiva di allargamento per i Balcani occidentali». Per raccontare questa storia bisogna però ripartire da un momento politicamente molto lontano rispetto all’Europa di oggi, ovvero il 2014, quando si insediò l’attuale Commissione europea. Allora le prospettive di allargamento erano state decisamente raffreddate rispetto al decennio precedente, perché si era detto di voler puntare sul consolidamento dell’Unione e su un approfondimento del percorso unitario.

«Contrariamente alle precedenti – spiega Paolo Bergamaschi, consigliere politico del Parlamento europeo che da anni lavora sull’allargamento e sulla politica di vicinato – questa Commissione non aveva un commissario all’allargamento, ma solo un commissario ai negoziati, mettendo in chiaro fin dagli inizi che in questa legislatura, dal 2014 al 2019, non ci sarebbe stato alcun nuovo ingresso nell’Unione europea, contrariamente agli anni precedenti». Le scelte compiute da Juncker al suo insediamento avevano raffreddato gli entusiasmi nei Paesi dei Balcani occidentali, che appena dieci anni prima, al Consiglio europeo di Salonicco, erano stati dichiarati come candidati e a cui era stata attribuita una prospettiva di allargamento. Questi Paesi erano stati divisi tra paesi candidati e paesi potenzialmente candidati, distinguendo tra coloro che avevano già iniziato i negoziati di adesione e quelli che non avevano ancora cominciato alcun tipo di discussione con Bruxelles. Inoltre, appena un anno prima, nel 2013, c’era stato l’ultimo allargamento, con l’ingresso della Croazia.

Perché oggi l’Unione europea ha ripreso il discorso sull’allargamento? Che cos’è cambiato?

«Personalmente a me che seguo l’allargamento da tanto tempo ha disturbato un po’ questo rilancio del processo. Ritenevo che fosse stato messo in stand-by ingiustamente,  ma oggi il rilancio è sostanzialmente è una reazione all’invasione di campo russa, cinese e turca. Una volta preso atto che ci sono altri attori che si muovono nei Balcani occidentali, l’Unione europea si è sentita in dovere di rilanciare il processo di allargamento quasi fosse una partita a poker con gli altri attori della regione. Ecco, è un rilancio dal punto di vista geopolitico, per dire agli altri che quest’ultimo angolo di Europa che è stato toccato solo in parte dal processo di allargamento riguarda soprattutto l’Unione europea stessa. Il 6 febbraio sostanzialmente l’Unione europea ha detto di voler ritornare nei Balcani per dare una prospettiva concreta di adesione ai 6 paesi che ancora mancano per ricomporre il club dell’Europa».

L’orizzonte di questo nuovo possibile allargamento è quello del 2025. Ma che percorso va seguito?

«Bisogna prima di tutto sottolineare che la data del 2025 è una data indicativa, ammesso e non concesso che vengano soddisfatte determinate condizioni. Il processo di allargamento è una cosa estremamente lunga e complicata, nel senso che Bruxelles deve votare 72-73 volte all’unanimità su ogni Paese. Ci sono 35 capitoli negoziali che riguardano i diversi campi d’azione e le diverse competenze di ciascuno degli stati, per esempio agricoltura, economia, servizi finanziari, politica estera, ambiente, e tutti questi devono essere aperti con un voto unanime da parte dei paesi membri dell’Ue e del paese candidato e poi devono essere anche chiusi una volta che si sia ottenuta la quadra. Prima ancora si vota all’unanimità per attribuire a questo paese la candidatura, poi si vota per aprire i negoziati, poi per 35 volte si aprono i capitoli negoziali e per 35 volte si chiudono e infine si vota il trattato di adesione totale. Insomma, ci si trova di fronte a una strada molto lunga e accidentata».

Oltretutto non potrebbero cambiare in corsa alcune situazioni?

«Certo, come spesso è successo. Facciamo un esempio, prendiamo la Serbia: la nuova strategia d’allargamento dice chiaramente che l’Unione europea non ha nessuna intenzione di importare all’interno le controversie bilaterali. In parole povere: se la Serbia non arriva a normalizzare le relazioni con il Kosovo non entrerà nell’Ue».

A pagina 2 del piano, nell’introduzione generale di linee di principio, si legge che «la vita quotidiana nei Balcani occidentali dovrebbe diventare progressivamente più vicina a quella dell’Unione europea». È un auspicio o una condizione?

«È una condizione. Quando nel 1993 iniziò il processo di allargamento, appena quattro anni dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989, tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale hanno cominciato a fare domanda d’adesione per entrare nell’Unione europea. In quel momento l’Ue si è trovata di fronte all’eterno dilemma se continuare il processo di approfondimento dell’Unione, quindi aumentare l’integrazione interna, o invece se allargarsi e quindi diluire il processo di approfondimento. In realtà i due processi sono sempre andati avanti e continueranno a farlo, bisogna avere la volontà di percorrere entrambe i cammini. All’epoca l’Unione europea ha definito tre criteri fondamentali per i Paesi che volevano entrare nell’Unione: criteri politici, criteri economici e criteri di trasposizione, quindi di implementazione della messa in atto del cosiddetto Acquis communautaire, cioè dell’immensa legislazione comunitaria che andava trasposta nelle legislazioni nazionali e applicata. Questi tre criteri sono il punto di riferimento per i Paesi che vogliono entrare nell’Ue, devono essere necessariamente soddisfatti».

Che cosa si intende quando si parla di criteri politici?

«Democrazia, diritti umani, libertà civili e stato di diritto. Se mancano questi non si può continuare il cammino di adesione. Per questo ci si basa sul cosiddetto transformative power, la capacità di trasformazione dell’Ue nei confronti dei paesi candidati: l’Unione europea deve riuscire a trasformare questi Paesi, che devono adeguarsi ai criteri e alle norme dell’Unione».

La strategia si autodefinisce credibile. Lo è veramente?

«Diciamo che fino a oggi l’allargamento ha funzionato. Ovviamente adesso ci sono situazioni difficili come quella di Ungheria e Polonia, ma vorrei ricordare che dal 2004 ai giorni nostri, ovvero dal big bang, l’allargamento di massa dell’Unione europea che si è verificato portando da 15 a 25 membri, complessivamente ha funzionato tutto bene. Non era facile riuscire a portare dei Paesi da un’economia di piano a un’economia di mercato e accompagnarli da regimi autoritari a una democrazia liberale funzionante: è stata un’impresa dal punto di vista storico».

Le vicende internazionali dell’ultimo decennio, dalle Primavere arabe alla guerra in Siria, ma anche il più ampio conflitto tra Arabia Saudita e Iran, con Israele nel mezzo, hanno ridefinito la centralità del Mediterraneo per l’Europa. Esiste in questo senso una prospettiva, anzi, una strategia mediterranea che giochi il ruolo che l’allargamento a est ha svolto negli anni successivi alla caduta del Muro?

«Esiste la politica di vicinato, neighbourhood policy, che è stata lanciata non solo nei confronti dei paesi del Mediterraneo ma anche delle sei repubbliche che facevano parte dell’Unione Sovietica e che oggi si trovano tra l’Unione europea e la Federazione Russa. A questi paesi è stata offerta la possibilità di integrarsi a vari livelli senza l’ipotesi, per ora, di entrare a farne parte, anche perché peraltro i Paesi del Mediterraneo non potrebbero nemmeno fare domanda di adesione, visto che in base all’articolo 49 del trattato di Lisbona solo i Paesi europei possono farla».

 

Nella foto: Belgrado