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Ligabue: lo straniero in terra straniera

Antonio Ligabue è un artista che conquista la nostra immaginazione grazie al fascino esotico che gli animali feroci dei suoi dipinti evocano. Opere che hanno un impatto forte, facendo appello allo spirito più selvaggio e curioso dello spettatore. Si tratta di un artista difficile da inserire nel quadro artistico italiano, rischiando di rimanere legati a definizioni troppo stringenti. Secondo alcuni episodi della sua vita, ovvero i tre ricoveri subiti in un istituto psichiatrico di Reggio Emilia, alcuni lo hanno definito artista della follia, vicino alla produzione di chi viene da un’esperienza di sofferenza interiore che spiega l’opera. Spesso si parla di lui come un naïf, definizione che il curatore della mostra di Genova, Sandro Parmiggiani, ritiene errata.

Sono un’ottantina le opere esposte a Palazzo Ducale fino al 1 luglio, e ne parliamo proprio col curatore.

Chi era Antonio Ligabue?

«Ligabue è uno straniero in terra straniera: come qualcuno senz’altro sa, all’età di 20 anni viene sradicato dalla Svizzera in cui era nato, figlio di una immigrata italiana, senza un padre, e viene mandato a Gualtieri, sulle rive del Po, in provincia di Reggio Emilia dov’era nato l’uomo che l’aveva riconosciuto dopo la nascita, avendo sposato sua madre. Ma Antonio Ligabue era già stato dato in affido a una famiglia svizzera tedesca della regione di San Gallo in tenera età, cresce lì e i suoi primi 20 anni sono difficili. La frequenza scolastica è precaria, ma sui banchi già emerge la sua passione: ama moltissimo gli animali e li disegna disegna furiosamente. Nel 1919, viene espulso dalla Svizzera, arriva a Gualtieri dove è una persona disarmata che parla tedesco, non conosce nessuno, dopo un’iniziale assistenza da parte del comune deve guadagnarsi da vivere e trovare da mangiare. Si sa che comincia a fare sculture con l’argilla degli argini del Po e poi continua a disegnare e dipingere. Trova uno sbocco quando in un inverno che viene ritenuto il più freddo del secolo scorso, tra il ’28 e il ’29, incontra Marino Renato Mazzacurati che lo sottrae al gelo, lo prende a casa sua dove è assistito e aiutato a continuare il suo lavoro.

Mazzacurati torna a Roma e la vita di Ligabue continua ad essere difficile nel paese che vede con un sospetto quest’uomo strano che parla diversamente e che dipinge animali feroci, scene di vita delle campagne e autoritratti. Queste opere per lungo tempo vengono ritenute eccentriche, vengono accettate magari in cambio di un piatto di minestra o della possibilità di dormire in una stalla. Molti ritengono che si tratti di un caso umano da aiutare, ma c’è anche chi, già a partire dagli anni ’30, pensa si tratti di un artista vero, che vede delle novità in quei colori folgoranti, in quelle forme tese dei corpi degli animali, soprattutto in quel dolore che esprimono i suoi autoritratti. Ma è solo dalla metà degli anni ’50 che Ligabue, non solo tiene la prima mostra personale, ma vede radicarsi un interesse per il suo lavoro. Anche le sue condizioni di vita cambiano, può permettersi di vivere la passione divorante per le motociclette, riesce ad avere due automobili e un autista; cambia la sua vita, anche se il destino batte alle porte perché nel ’63 ha una paresi, non può più lavorare e muore nel ’65».

Questo è quello che vediamo noi di Ligabue. Cosa vede lui?

«Lui ha una passione sconfinata per gli animali feroci, della savana e della foresta. Quegli animali che rappresenta mentre lottano per la sopravvivenza, mentre cercano di sopraffare qualche nemico. Leopardi, tigri, leoni, è una rappresentazione che parla della capacità di difendersi, di resistere alle aggressioni della vita, che lui non aveva. Bisogna pensare che l’iconografia di partenza che lui trasfigura e sviluppa, sono le figure che prendeva dai manuali che consultava, oppure dalle figurine diffuse in quegli anni, o dalle visite che faceva nei musei della Svizzera e poi di Reggio Emilia, dove si trovavano animali imbalsamati. Questo è un aspetto, poi in maniera complementare c’è la raffigurazione della vita della bassa dove lui era immerso, i contadini, i cavalli, gli animali domestici, i cavalli imbizzarriti dal temporale, le lotte dei galli nei pollai, i gatti che si aggirano col topo in bocca. C’è anche il capitolo straordinario degli autoritratti, non un elemento marginale se pensiamo che su circa 900 dipinti che si conoscono, ci sono più di 170 autoritratti, sicuramente impietosi rispetto al proprio aspetto. Lui lo fa perché sente il bisogno, di fronte all’ostracismo, alle difficoltà che aveva nel rapporto con le altre persone, di affermare la propria presenza e il proprio talento. Potremmo dire che Ligabue va considerato all’interno di quel grande filone che in Europa nasce poco dopo l’inizio del secolo, negli anni ’20, quello dell’espressionismo, con questa esasperazione delle forme e dei colori con cui si vuole dire e si vuole rappresentare una tensione che è anche interiore. La cosa incredibile di quest’uomo, che viveva in un mondo di contadini nella bassa reggiana, è questa capacità visionaria, un po’ come Emilio Salgari che parlava delle tigri della Malesia senza esserci mai stato; lui ci fa vedere queste lotte nella savana, i serpenti che si attorcigliano intorno al corpo del leopardo, oppure i lupi famelici della siberia che rincorrono una slitta, ma li aveva solo visti nelle illustrazioni».

Ligabue sembra essere un pittore piuttosto apprezzato e riconosciuto, ma forse non totalmente compreso?

«Ligabue è stato inserito per lungo tempo in questa moda dei naïf, molto diffusa negli anni ’50, ’60 e parte degli anni ’70. Una moda che ha dimostrato però di avere il respiro corto, nel senso che gli artisti interessanti all’interno di questo mondo erano molto pochi. Ligabue non va considerato naïf perché non si limita a proporre una forma semplificata del mondo che gli sta intorno, lui è qualcosa di più, si respira una tragedia. L’idea è che la vita è una sofferenza, anche negli autoritratti il suo sguardo è quasi sempre rivolto verso ciò che sta dietro di lui, allo stesso modo in cui un animale deve sempre guardarsi da un pericolo che gli sta alle spalle».