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Post Zang Tumb Tuuum

A Milano, presso la Fondazione Prada, si indaga il sistema dell’arte tra le due grandi guerre che hanno interessato il nostro Paese. Si tratta di un periodo notevolmente vivace dal punto di vista culturale, dovuto al fatto che è il momento in cui si sviluppano le avanguardie artistiche; movimenti, soprattutto sulla spinta dei futuristi, da cui il titolo della mostra, che pensavano l’arte come uno strumento di miglioramento della vita, un mezzo di intervento nella società. È un periodo in cui l’Italia è stata anche protagonista di un certo fervore edilizio e di promozione di attività culturali promosse dallo Stato che, come dice Mario Mainetti, curatore della mostra, nonostante fosse totalitario, ha mantenuto almeno fino alla metà degli anni ’30, un approccio all’arte imparziale: alle mostre di stato erano presenti sia gli astrattisti, che i futuristi, il Gruppo ‘900 e i figurativi.

La tentazione rispetto a questa mostra e di fare subito un confronto con la situazione contemporanea. È così anche per voi?

«Questa è sicuramente una grande mostra sull’arte italiana degli anni ’20 e ’30 con tutti i protagonisti e la varietà di quel periodo, ma per noi è un progetto nato come una riflessione sul presente, in particolare sul ruolo di un artista all’interno di una società, delle scelte che è costretto o che si ritrova a dover prendere. In questo senso andare a vedere le relazioni tra gli artisti e il contesto in cui le loro opere sono state prodotte, in un periodo censibile come quello degli anni ’20 e ’30, caratterizzati dal primo dopo guerra e poi dall’instaurazione e crisi di un regime totalitario, è stato per noi lo strumento ideale per andare a capire questo tipo di relazioni».

La riflessione quindi parte dall’oggi per indagare quel periodo, poi attraverso questo percorso che avete fatto siete tornati a una riflessione nuova sull’oggi?

«Penso di si, però è una riflessione che lascio ai visitatori. La forza della mostra è che il periodo è presentato attraverso i documenti: quello che abbiamo fatto è stato andare a vedere, soprattutto attraverso i documenti fotografici, di vita privata e di attività pubblica, quali opere e quali artisti erano presenti in determinate occasioni. Da questa indagine è nata la selezione di opere in mostra che non sono solo d’ arte, c’è anche design, o arti decorative, come si diceva all’epoca, arredamento e architettura; è stato un periodo di grandi collaborazioni. Rispetto all’oggi, sinceramente io credo che essere un artista deve essere stato migliore, sia considerando i percorsi coloro che hanno sposato le idee del regime, sia di coloro che invece si sono opposti e hanno fatto l’esperienza della prigione. Da questo percorso si può ricavare un monito per l’artista di oggi il quale, magari non è più così dipendente o non ha più così l’occasione di spendere il proprio lavoro per il popolo o per lo stato, ma si ritrova a lavorare per ricchi collezionisti o stati che non hanno una struttura propriamente democratica».

Cosa troviamo nel percorso della mostra?

«Il percorso è decisamente cronologico; parte da un’immagine dello studio della casa di Marinetti, prosegue attraverso le ricostruzioni e le presentazioni di documenti in vetrina e a parete attraverso tutti gli anni ’20, le Biennali di quel decennio, Casorati, Carrà, fino ad arrivare alla presentazione della mostra della rivoluzione fascista che si sviluppa nella nostra sala più grande. Questa era una mostra che era stata organizzata nel ’32 per i 20 dalla marcia su Roma ed è stata una grande collaborazione tra artisti e architetti, con l’unico scopo di promuovere le idee fasciste e il regime. Una mostra che non aveva opere d’arte e di cui alla fine è andato tutto distrutto; noi la presentiamo attraverso i documenti e le fotografie storiche, ingrandite alla scala reale per rendere evidente lo sforzo costruttivo, la collaborazione artistica, ma anche l’impegno del regime nell’utilizzare lo strumento “mostra” a fine di propaganda. Nella galleria nord si sviluppano gli anni ’30 in una serie di riproduzioni a scala reale di angoli di mostre; si vede un progetto di Martini per il Palazzo di Giustizia affiancato al bozzetto. Gli anni ’30 sono gli anni anche dei muri a pittori, della grandi commissioni pubbliche, è anche il periodo di costituzione della Galleria Nazionale di Arte Moderna. La riflessione è su come il sistema dell’arte si organizza e si fonda nelle sue componenti proprio in quegli anni: nascono a Milano le gallerie private che fanno vedere design insieme all’arte, cose che viviamo come molto contemporanee ma che era già presente allora. Il percorso si chiude poi con una postilla, con un sala che è dedicata agli anni di guerra, soprattutto dal ’43 in poi, dopo l’armistizio, in cui sono presenti le opere di artisti che hanno militato nella resistenza, come Vedova, o che sono tornati dagli Stati Uniti perché scappati in quanto ebrei, come Cagli, e da soldati che hanno documentato col disegno i campi di sterminio, oppure come Sassu che dipinge l’eccidio di piazzale Loreto. Tutto si chiude con una tenda sulla quale è riprodotta un’altra mostra, quella della Liberazione che si è tenuta a Milano, e che poi ha viaggiato, per ricordare e celebrare la Resistenza. Lo strumento mostra è un importante protagonista del nostro progetto, attraverso le ricostruzioni delle biennali, delle quadriennali, delle mostre in galleria che si susseguono in questi 20 anni; uno strumento che non muore dopo essere stato usato e sfruttato dal regime, anzi, diventa il primo mezzo per connettere nuove idee, nuove storie a un pubblico che ha vissuto la guerra in prima persona».