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Agape l’anticipatrice

Terzo articolo della serie dedicata al 1968 nelle chiese evangeliche italiane. Dopo Marco Rostan sulla stagione dei manifesti e dei volantini e dopo il direttore del Servizio Cristiano di Riesi Gianluca Fiusco sul ’68 in Sicilia, oggi è il turno di Renato Maiocchi parlare di Agape, quell’utopia sui monti capace di anticipare temi e battaglie sociali, civili, religiose, nel dopoguerra italiano fino a oggi.

 

Il ‘68 ad Agape? Sono entrato a far parte del gruppo residente nel novembre del 1967, giusto in tempo per la tempesta che si preparava! In realtà, i temi che Agape proponeva in quegli anni erano abbastanza in linea, anzi per certi versi anticipatori di alcuni obbiettivi proclamati dalle rivolte che dilagarono in mezzo mondo. Campi di avanguardia come il campo ecumenico, iniziato prima ancora del Vaticano II; il campo Africa-Europa, uno dei pochi posti nei quali gli africani, alle prese con il neocolonialismo, si sentissero sullo stesso piano degli europei; il campo della pace, quando ancora i rapporti fra Est e Ovest erano scarsi e difficili; il campo Europa-America, cioè l’incontro fra i movimenti di dissenso e di resistenza americani ed europei, offrivano un vasto orizzonte internazionale alle esperienze che maturavano in Italia in quegli anni, come la Fgei, Com-Nuovi tempi, le comunità di base, cristiani per il socialismo. Con tutto questo, il ‘68 non fu esattamente una sinecura, in queste poche righe ne rievocherò un paio di momenti.

Pensiero e azione

La preparazione dei campi veniva affidata ogni anno a delle équipes che ci lavoravano durante l’inverno. Si trattava, comprensibilmente, di uomini e donne già impegnati in prima fila nel loro contesto, chiesa, scuola, politica, sindacato, i quali in quell’anno si trovarono di fronte al dilemma se salire ad Agape per continuare la riflessione sui temi da loro stessi proposti, facendo però mancare il loro apporto alle rivolte che intanto dilagavano sul terreno. Alla fine, la diminuzione di partecipanti non si rivelò drammatica ma già durante il campo Africa-Europa era palpabile una certa dose di frustrazione da parte di molti, strattonati fra un’attiva partecipazione al campo e le notizie delle battaglie che intanto infuriavano senza di loro

“L’immagination prend le pouvoir”

Il campo Europa-America invece propose una soluzione opposta: cominciare proprio ad Agape a sperimentare la società nuova, libera da regole e costrizioni. Come? Abolendo l’organizzazione fissa del campo, dagli orari dei pasti alle discussioni, a favore di un gioioso happening. Il direttore, Franco Giampiccoli, sfoderando un largo sorriso, fece sommessamente notare che in questo modo la “società liberata” riproduceva, aggravandola, la divisione fra i “liberi” campisti e il gruppo di volontari sempre a disposizione per assicurare a comando i pasti e gli altri servizi e che questo, per usare un’espressione del libretto rosso allora in voga, assomigliava molto ad una contraddizione in seno al popolo…

Un covo di rivoluzionari nascosto sulle montagne?

Durante uno dei campi internazionali un giornalista del settimanale L’Espresso in cerca di qualche scoop estivo salì ad Agape e colpito dalla presenza lassù di un centinaio di giovani di diverse nazionalità impegnati in un confronto delle rispettive esperienze di contestazione, imbastì un articolo che apparve con il titolo “Il quartier generale della rivolta” (sic!). Invano il direttore Giampiccoli inviò al settimanale una protesta lamentando che quell’articolo, senza nemmeno un’intervista alla staff del campo, ignorava le cose serie e puntava su quelle canzonatorie, tipo un gruppetto che nei momenti ricreativi circonda un chitarrista e canta una canzone molto in voga nella sinistra extraparlamentare che parla di “lotta di popolo armata”. Anche se il gruppetto assomigliava più ai “figli dei fiori” che a una novella “brigata Garibaldi”…

La contestazione nella chiesa o della chiesa?

Tuttavia, la sfida più grande si presentò al campo invernale, tradizionalmente destinato ad affrontare temi oggetto di dibattito all’interno dell’evangelismo italiano, in seno al quale episodi di contestazione che già si erano manifestati in anni precedenti, nel ‘68 si moltiplicarono, fino a quello, clamoroso, degli striscioni appesi alla balaustra del pubblico durante il Sinodo valdese. Naturale, dunque, che Agape proponesse per il campo invernale il tema della contestazione nella chiesa. Del tutto inaspettata, invece la presenza di un gruppo di persone estranee agli ambienti normalmente in contatto con Agape, appartenenti ad un movimento che si chiamava dei “consigliori”, i quali  proclamarono che bisognava farla finita con la contestazione “nella” chiesa per procedere alla contestazione “della” chiesa e “mandare a quel paese Gesù Cristo e la religione”. Fu un’ulteriore occasione per “render conto della speranza che è in noi” e ribadire serenamente che Agape non è un luogo neutro: l’ impegno sui temi della pace, della giustizia sociale, della solidarietà fra i popoli non è frutto di un generico umanesimo ma della vocazione condivisa di una comunità di credenti in Gesù Cristo, aperta all’incontro con tutti, ma nel rispetto dell’identità e delle motivazioni di ciascuno. Qualche anno dopo, durante il secondo congresso Fgei, lo ribadii esclamando: «Agape è sangue e carne nostri». Un po’ retorico, ammetto, ma al cuore non si comanda.