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Inverosimile eppure reale: come l’animo umano

Il critico Giovanni Grazzini così commentava la proiezione di Sussurri e grida al Festival di Cannes nel 1972: «Suona l’ora di Bergman, e sul più alto pennone del Festival s’alza il vessillo del brivido». E di brividi si trattava davvero, con la resurrezione di una delle protagoniste, Agnese, ormai ai suoi ultimi giorni, raggiunta dalle due sorelle. Solo da ragazzine, vediamo in flashback, sembrano essere state liete insieme; poi ognuna ha preso la propria strada: Agnese nella villa di famiglia con la cameriera Anna (quest’ultima ha perso una bambina che – dice in preghiera – nella sua insondabile saggezza Dio ha ritenuto di dover chiamare a sé), le sorelle a spendere i propri giorni in matrimoni falliti e nell’odio reciproco. Nel momento della resurrezione ci sarà stato senz’altro chi giudicava la scena inverosimile, o addirittura ingenua.

Qui bisogna intendersi. Perché Bergman non ha mai preteso di sostituire la vita con la finzione, e ha chiarito, nei film come negli allestimenti teatrali, che noi spettatori, appunto, siamo di fronte a uno spettacolo. La passione per il teatrino delle marionette, per la lanterna magica, per la favola inverosimile e sublime che ha filmato con il Flauto magico di Mozart dicono proprio questo: attenzione, qui comincia una messa in scena, di cui è giusto svelare anche i movimenti di attori e macchinisti dietro le quinte.

Si tratta dunque di entrare in una dimensione che ci terrà occupati per un’ora e mezza circa, all’interno della quale possono capitare fatti verosimili e altri che lo sono molto meno, come i marziani che sbarcano da un’astronave di latta o un mostriciattolo simpatico che s’invola pedalando su una bicicletta. L’importante è che, sulla base di vicende che razionalmente dovremmo rifiutare, possiamo tuttavia cogliere dei valori, capire come cambiano le persone, come mutano i loro sentimenti e evolvono le passioni; che possiamo capire come si può fare del bene senza rendersene conto e come si fa del male agli altri mentendo a se stessi. I «torbidi» della dimensione orizzontale (gli amori, le gelosie, i tradimenti, gli eccessi) ci arrovellano come ci arrovella (nella verticalità) non già il «silenzio di Dio», ma la nostra incapacità di cogliere le sue parole.

Questo dice quella scena «inverosimile» di Sussurri e grida: nel mondo cinico dell’egoismo, delle sorelle e dai loro odiosi mariti (a cui si contrappone la cameriera che, sola, stringe a sé la malata, al proprio petto, nonostante la sua tosse, il suo sudore di moribonda e gli occhi stralunati dal dolore e dai farmaci), che cos’è più inverosimile? Che queste persone invelenite nell’animo ricomincino a parlarsi, e trovino speranza in questo mondo, oppure la resurrezione di una donna dal mondo dei morti?

Bergman ha parlato, e parla tuttora, a una generazione i cui membri più giovani hanno almeno cinquant’anni, ma non per questo è stato incapace di cogliere come stesse mutando la sensibilità dei suoi contemporanei: gli ultimi film pensati per la tv stanno lì a dimostrarlo, come era già stato in precedenza con le Scene da un matrimonio (1973); un’intuizione del maestro svedese sarà proprio quella di riproporre trent’anni dopo la stessa coppia di protagonisti: invecchiati, passati attraverso altri matrimoni e delusioni o lutti, impersonati dagli stessi attori (Erland Josephson, uno degli alter ego del regista, e Liv Ullmann, che di Bergman fu moglie), si muovono in un mondo che non è più quello della «trilogia del silenzio» (Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio, tra il 1961 e il 1963) e ancor meno quello che nel 1956-57 vide affermarsi Il settimo sigillo e Il posto delle fragole. Quello era un mondo spaventato dalla possibile morte atomica e dalla morte per fame nel mondo, un mondo pieno di angosciose domande, che andavano e venivano tra la cultura e le chiese: nel 1967 il teologo valdese Paolo Ricca scrive per l’editrice Claudiana La “morte di Dio”: una nuova teologia? e l’anno dopo si tiene a Uppsala, città natale del regista, l’Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese. Dio pareva non parlare più, ma qualcuno lo cercava. Invece nel 2003 Sarabanda, ultima opera del regista, che morirà quattro anni dopo) non mostra solo due personaggi (e interpreti) invecchiati di trent’anni: illustra un mondo di persone a cui sono rimaste le domande sui propri rapporti affettivi e amorosi, sulla carriera e sul modo intelligente di invecchiare. Ogni altra questione (le questioni «verticali», metafisiche, Dio…) si è dissipata e nessuno ne sente la mancanza. Tuttavia si vede che un vuoto c’è, come l’alone o il contorno della cornice sulla parete di un museo, quando un quadro viene mandato in restauro o in un’esposizione temporanea. Manca qualcosa, ma ciò non preoccupa nella Svezia della secolarizzazione.

Come in tanti racconti biblici, che Bergman da bambino ha orecchiato e da adulto pare aver detestato, Bergman ci ha parlato con i suoi: racconti immaginifici, fantasiosi, terrificanti o colmi di attesa e di speranza; racconti che oltretutto sfidano il buon senso comune, come lo sfida il padre misericordioso della parabola. Il posto delle fragole narra di un viaggio in auto grazie al quale un vecchio e burbero professore di medicina fa i conti con se stesso e si scopre migliore di come credeva di essere. Che cosa c’è di più volubile e indecifrabile dell’animo umano? Atti verosimili e meno verosimili ci svelano come siamo fatti. Dobbiamo però accettare di non capire tutto subito: non per niente uno dei più celebrati film di Bergman deve il titolo a una delle più celebri espressioni di Paolo, Come in uno specchio.