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Laicità, faro spento

Laicità, chi era costei?

L’illustre assente dallo scenario pubblico dei nostri tempi.

Giuramenti su vangeli, crocifissi nei luoghi pubblici, rosari branditi nei comizi; simboli di fede che diventano strumenti politici per ripristinare una presunta identità comune. Soprattutto in questi tempi in cui l’Europa è attraversata dai tumulti dei tanti che vedono nelle migrazioni il compimento di un preciso disegno egemone dettato dal furore islamico degli invasori.

Ma non è tutto. Lo racconta benissimo Cinzia Sciuto, giornalista e blogger, nel suo ultimo libro per Feltrinelli, “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo”.

Anche l’atteggiamento opposto infatti, il cosiddetto multiculturalismo, ha generato mostri.

«In molte situazioni assistiamo allo Stato che ha abdicato al proprio ruolo – ci racconta Sciuto, a Torino per la presentazione del volume – ; per paura di instabilità sociali, per debolezza, si finisce per creare un pulviscolo di comunità etniche che si autogestiscono. Il caso inglese è clamoroso: la Shari’a è in vigore e vive a fianco dell’ordinamento giuridico britannico. Per casi di divorzio soprattutto, e di eredità, sono i tribunali islamici, guidati dai leader religiosi locali, a giudicare i membri della comunità, con regole che ovviamente non riconoscono alcun ruolo alle donne; e lo Stato acconsente considerando che le corti religiose abbiano titoli per gestire tali situazioni».

Ma attenzione, il problema non è l’islam, è l’invasione delle religioni nello spazio pubblico. Gli esempi non mancano neppure con le chiese cristiane, anche in questo caso con le donne come principali vittime della situazione. Dalla Polonia ai paesi latino americani, l’ingerenza della chiesa, in questi casi cattolica, nella vita pubblica, è costante.

La laicità come cornice dunque, ma come definirla?
«Come il rispetto dell’insieme dei diritti umani fondamentali, e la garanzia della libertà dell’individuo nello spazio pubblico. Non si chiede indifferenza o partigianeria allo Stato: si chiede di creare le pre-condizioni che consentano al singolo di poter determinare in autonomia la propria vita e il proprio orizzonte di valori. La subdola manovra dei nostri tempi è quella di far slittare il concetto di laicità verso l’ateismo per viziare all’origine ogni possibile critica alle ingerenze religiose con la scusa della “crociata contro le religioni”. Ma non è così, il nemico del laico non è il credente, sono i fondamentalismi ».

Nel libro uno dei motivi ricorrenti è quello della libertà dei singoli, vincolo inderogabile. Giusto, ma non c’è il rischio di un ripiegamento individualistico?
«Tutt’altro. La prospettiva individualista si attua se metto davanti i miei diritti rispetto a quelli di tutti. Lo sguardo deve essere un altro: l’individuo nella sua universalità, la precondizione per un progetto solidale. In questo discorso la religione trova il suo spazio, ma questo deve essere limitato al proprio vivere privato, e in questo ambito privato può occupare anche il primo posto della personale scala dei valori. Ma il fondamento del vivere civile deve essere un patto che garantisca le libertà e i diritti di tutti e di ciascuno».

Gli obiettori di coscienza negli ospedali, l’ora di religione nelle scuole, gli spazi pubblici occupati manu militari: come è possibile che in Italia si faccia un passo avanti per farne due indietro?
«Il nostro Paese, abituato a convivere con una sola religione, quella cattolica, di fronte al mutare delle società, sta reagendo spesso con atteggiamenti di chiusura, con il ripristinare un’identità reazionaria. Non è realmente questione di fede. Sui diritti non bisogna mai abbassare la guardia, non sono purtroppo acquisiti per sempre perché sempre ci sono pulsioni individualiste, reazionarie, che attraversano i tessuti delle nostre società. Bisogna vigilare affinché tali diritti non diventino privilegi di pochi a scapito di molti. Ma esempi non mancano pure dove forse non ce li aspetteremmo: in Germania sia la chiesa cattolica che quella luterana hanno un’incidenza che molti forse non immaginano. Anche qui vi sono campagne di denuncia sistematica di medici che praticano l’aborto: esiste una norma che ne vieta la pubblicità e si è arrivati a considerare pubblicità anche il semplice elenco su un sito internet dei servizi offerti da una clinica. Da qui cause in tribunale, tempo e soldi persi. Per questo molti si arrendono e interrompono il servizio per non avere noie. Si creano le condizioni in pratica per rendere complicato scegliere l’aborto».

La Francia forse è andata più vicina al concetto di laicità proposto?
«Quello francese è un modello di laicità rigoroso che però ha in sostanza fallito per vari motivi: non bastano le leggi da sole, serve creare un tessuto sociale dinamico con strumenti educativi, culturali, capaci di creare vera integrazione. La laicità non vive di vita propria. Se ampie fette di popolazione non riescono ad accedere a servizi e diritti che pure le leggi riconoscono loro, si creano reazioni di chiusura, identitarie, alimentate dal sentimento di esclusione».

Esattamente quanto sta capitando da anni nelle banlieue, con lo spaesamento delle seconde e terze generazioni di immigrati che riscoprono simboli identitari che spesso i genitori nemmeno riconoscevano, in nome di una presunta reazione religiosa di gruppo all’esclusione in corso.

Perché questo libro, proprio ora?
«Oggi alle nostre latitudini non lottiamo più per certi diritti che diamo per assodati, e abbiamo visto quanto sia un atteggiamento pericoloso. Ma altrove non è così: ovunque nel mondo ci sono gruppi che si battono per la libertà di parola, per la libertà di svincolarsi da una religione, e per molto altro. Non è vero che sono “valori occidentali”, questa è una definizione retorica fondamentalista, come quella dello “scontro di civiltà”. Il libro nasce perché non capisco proprio perché quello che è diritto e libertà in un luogo, non lo sia in un altro. Il non poter affrontare certi discorsi, come quello sul velo islamico, sulle piscine aperte con orari differenti per le donne islamiche, perché nel farlo si offenderebbero le altrui sensibilità. Non poter mettere in discussione certe “regole” come i simboli religiosi nei luoghi pubblici, messi lì in nome di presunti valori condivisi che non si possono mettere in discussione. Vedere quanto siano le donne le prime vittime di questo atteggiamento relativista che non aiuta nessun processo di emancipazione e di presa di coscienza, e invece itera meccanismi e stili arcaici e tribali in nome della “tradizione”. Ecco queste sono le motivazioni che mi hanno mosso».

Un libro che dovrebbe stare sul comodino quale lettura distillata di buone pratiche dimenticate del vivere sociale. O meglio, dovrebbe stare in classe per un’ora di educazione civica da proporre alle nuove generazioni. Al posto magari dell’ora di religione.  Ma da queste pagine abbiamo capito quanto sia dura anche solo pensarlo.