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Le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti

Ragionare sulle responsabilità della comunicazione può sembrare uno sforzo titanico e patetico al tempo stesso, nell’èra della rete. Disponibilità illimitata di informazioni, quantità smisurata e velocità frenetica delle notizie. Parlare di deontologia non suona ottocentesco? La risposta è un testardo no, più convinto di ieri.

Proprio perché tutti oggi fanno comunicazione (grazie alla rete, grazie ai social), proprio perché sempre più penetrante e pervasivo è il suo ruolo nel determinare orientamenti e spostamenti dell’opinione pubblica, il discorso sui doveri della comunicazione è ancora più necessario. L’articolo 21 della Costituzione non è scritto per i giornalisti. Se un uomo pensa di poter postare impunemente minacce di stupro a una donna; se un ragazzo crede di poter bullizzare senza conseguenze un compagno su facebook; se la contrapposizione politica si esprime nelle forme del pestaggio telematico e dei troll a valanga, il problema va ben oltre i confini di una categoria. La diffusione di discorsi d’odio è un veleno che sta penetrando nelle vene della nostra società, di pari passo coi benefici che la diffusione dei new media porta con sé.

Per questo il 6 ottobre ci siamo ritrovati ad Assisi: giornalisti e giuristi, laici e religiosi, esponenti di organismi istituzionali e animatori di esperienze sociali e sindacali, accomunati dalla convinzione che sempre più la qualità della comunicazione incida sulla qualità della democrazia; che ragionare sulle parole significhi ragionare sul modello di convivenza che vogliamo per il nostro Paese.

A promuovere l’incontro insieme ad «Articolo 21» il Sacro Convento francescano, le organizzazioni dei giornalisti (Fnsi, Ordine, Usigrai) e la Tavola della Pace, alla vigilia di un’edizione della marcia Perugia-Assisi di grandissima partecipazione. Al centro il «Manifesto» sulle buone pratiche della comunicazione, che nella stessa sede era già stato abbozzato un anno prima e che ora, dopo gli emendamenti suggeriti dalla discussione, dovrà diventare strumento di lavoro: perché nell’Italia di Riace e di Lodi «è ora di passare dall’indignazione all’azione», come ha sottolineato il presidente del sindacato dei giornalisti Beppe Giulietti prospettando la necessità di una grande iniziativa pubblica per «accarezzare la Costituzione».

Il «noi» all’insegna del quale sono stati formulati i principi impegna tutti, in qualunque collocazione professionale e sociale: «le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti»; «viviamo il web come bene comune»; «diventiamo scorta mediatica della verità» (in sostegno all’informazione, in Italia e altrove: il convegno di Assisi si è aperto con una manifestazione di solidarietà ai giornalisti turchi).

Ma c’è un punto che chiama in causa specificamente i professionisti dell’informazione: «impariamo a dare i numeri giusti». Perché la categoria non può chiudere gli occhi se l’Italia risulta essere – vedi i risultati di una recente ricerca Ipsos condotta in 13 nazioni – il Paese in cui trionfa il «percepito», in cui cioè più grande è la distanza tra i fenomeni reali e ciò che la gente ne pensa. Ad esempio, alla domanda su «quanti cittadini musulmani pensi ci siano ogni cento abitanti», gli italiani rispondono 20, mentre in realtà sono solo 3,7. È evidente come in questa divaricazione possano avere facile presa le speculazioni politiche più spregiudicate. Ed è anche chiaro dall’esempio che proprio in tema di pluralismo religioso c’è un ritardo della nostra società e della informazione che non va rimosso, come ha messo in luce il pastore Eugenio Bernardini nell’intervento che ha fatto giungere all’incontro.

Ora il Manifesto deve cominciare a camminare: nelle scuole, nelle associazioni, nelle comunità religiose. E soprattutto in rete, dove oggi si gioca la battaglia decisiva: «diamo corpo alla notizia, portiamola nelle piazza digitali», dice l’ultimo punto. Per provare a recuperare il terreno lasciato per troppo tempo a haters e spacciatori seriali di fake news.