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Via dell’Emigrante: due corsie e una ripida salita

Nel paesino di Gissi, in provincia di Chieti, c’è accanto al corso principale una strada chiamata Via dell’Emigrante. E’ una strada laterale, sì, ma necessaria, perché quando la sera il corso viene pedonalizzato, Via dell’Emigrante è l’unico modo per raggiungere i punti focali del paese in macchina. La strada ha due corsie, e termina da un lato con una ripida salita verso una perpendicolare, Via Salita Castello. In macchina, la salita si fa senza alcun problema, ma a piedi il fiato viene meno molto presto nel dislivello.

Via dell’Emigrante è uno di quei nomi che si dimenticano facilmente, sommersi come siamo da notizie di tutti i generi, nomi di cose, di paesi, di città uno sopra all’altro che si affollano nella nostra mente. Conosco Via dell’Emigrante da sempre, eppure solo pochi mesi fa ne ho finalmente apprezzato il nome. Prima di allora, era solo una serie di sillabe che significavano un luogo non molto importante nella mia mente. Percorrendo Via dell’Emigrante per l’ultima volta in quello che so sarà molto tempo, ho realizzato ciò che quel nome comporta. E’ un simbolo che dimostra tutto ciò che sono io, è un nome che va ben oltre una via laterale, ma rappresenta una parte centrale della mia identità e di quella di molti altri. Via dell’Emigrante è un patrimonio nazionale, non un percorso alternativo.

Nel mille novecento sessantuno Via dell’Emigrante non portava quel nome. Era una strada come tante altre, percorse da donne e uomini a piedi e su mezzi di trasporto vari, come è ora. Però non era un simbolo. Al contrario, centinaia e centinaia di famiglie in quegli anni stavano abbandonando la loro casa, a pochi metri, chilometri, da quella che sarebbe diventata Via dell’Emigrante in loro onore. Con bambini poco più che neonati, a volte una decina di pargoli al seguito, chiudevano i loro averi in una singola valigia e partivano per posti che non sarebbero mai riusciti a pronunciare correttamente. Città del Brasile, dell’Argentina, del Belgio, della Svizzera, dell’Australia, della Francia e dell’Inghilterra, e tanti altri luoghi che se aveste chiesto loro di posizionarli su un mappamondo mai e poi mai ci sarebbero riusciti.

Ma partivano, senza conoscenza alcuna se non di un certo futuro migliore che aspettava i loro figli. E qui mi soffermo – non loro: per sé questi genitori, uomini e donne di coraggio, non si aspettavano nulla di migliore. Forse, addirittura qualcosa di peggiore. Ma per i loro figli, i loro nipoti, sapevano di star combattendo contro alle avversità per garantire qualcosa di più, a volte l’impossibile.

Contadini sognatori che abbandonano i campi per sempre, trasferendosi in città sconosciute affinché i loro figli, a Dio piacendo, potessero un giorno avere una licenza media, un diploma di liceo, e per i più pazzi di loro c’era anche la speranza di una laurea universitaria. Ma chi prendevano in giro se non sé stessi, sognando all’impazzata, illudendosi di poter dare ai figli un’educazione superiore? Una casa? Una dote? E quanti, di questi contadini sognatori, non sono mai arrivati a destinazione. Quanti, una volta arrivati, sono stati sopraffatti dalla vita, dagli eventi, dalla sfortuna, e non hanno potuto vedere i loro figli crescere ed i loro sogni avverarsi. Eppure una parte di loro ci è riuscita: hanno dimostrato a tutti di essere capaci di dare alle generazioni future ciò che se non avessero rischiato in modo così spudorato non sarebbero mai riusciti a dare. Ed anche se il prezzo da pagare è stato alla pari di un sacrificio umano, un’ecatombe grande una generazione intera, ai loro occhi ne è valsa la pena. Gli anni di sacrifici e notti di lavoro sono valsi tutto il giorno in cui il primo figlio è uscito da un’aula universitaria con una corona d’alloro sulla testa. In quel momento, null’altro poteva più contare.

Nelle mie vene c’è il sangue di quegli illusi, pazzi sfrenati, sognatori folli. Nelle mie vene c’è il sangue del sacrificio commesso perché io non dovessi. Porto il nome dell’Emigrante che si è sacrificata per me, sebbene non sarò forse mai in grado di renderle onore. L’eredità da noi ricevuta non sarà mai in denaro, per noi figli e nipoti di emigranti. Il denaro non conta, e lo abbiamo imparato dall’esempio datoci. Per noi, l’eredità è il futuro. Per noi, figli e nipoti di emigranti, l’eredità è poter essere certi di avere cibo sulla tavola ogni giorno, leggere e scrivere, poterci istruire, andare all’università. Per noi, tutto questo è scontato, ma non passa un giorno che non ci guardiamo alle spalle e poniamo una ghirlanda mentale in memoria del sacrificio commesso in nostro onore, in nostro nome. Nelle mie vene e nella mia mente c’è tutto questo.

Eppure oggi mi trovo, io, lontana dall’Italia, cercando per me stessa e per il mio futuro qualcosa di migliore di ciò che ho lasciato indietro. L’Italia che ho lasciato non è quella che mi è stata data: non è l’Italia costruita sul lavoro, sul sacrificio, sulle spalle di strenue persone con il desiderio di costruire una vita migliore per i loro discendenti. L’Italia di oggi è forse più simile a quella di quei contadini sognatori, ed io in fondo sarà sempre una di loro.

Perciò, quando ho deciso di lasciare l’Italia sapevo di non dover temere. Sono l’erede di una grande dinastia, la più grande d’Italia, la più numerosa. Sono parte di una famiglia che non ha paura di abbandonare tutto alle spalle e ricominciare, perché i nostri sogni e i nostri desideri sono più forti di qualunque ostacolo la vita ci ponga davanti. Sono l’erede degli Emigranti Italiani – quelli che sono partiti e sono tornati, quelli che sono partiti e più tornati, e quelli che non sono mai arrivati. Come Via dell’Emigrante è una strada a due corsie, così gli Emigranti Italiani non sono limitati ad una sola generazione, e non sono solamente coloro che sono rimasti all’estero. Gli Emigranti Italiani sono una porta che continua a girare fino a che non saremo in grado di ottenere a casa il futuro che sogniamo. Come Via dell’Emigrante, c’è una ripida salita da affrontare per poter arrivare a destinazione, è una salita che lascia senza fiato, a volte ci scoraggia, e a volte la affrontiamo senza pensarci. Tutti noi – i contadini sognatori di una volta, i loro figli e nipoti, gli Emigranti moderni che lasciano casa per studiare e lavorare all’estero – tutti noi siamo residenti in Via dell’Emigrante.

La mia dinastia è testarda, coraggiosa, e forte. Il mio titolo nobiliare è Emigrante, e lo porto a testa alta.

Tratto dal blog di Carol Cieri blurbsandthoughts