istock-542797108

Stati Uniti d’Europa, un’utopia concreta

«Invano gli stati sovrani elevavano attorno a sé alte barriere doganali per mantenere la propria autosufficienza economica. Le barriere giovavano soltanto ad impoverire i popoli, ad inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare ad ognuno di essi uno strano incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche, ed a fare ad ognuno di essi pronunciare esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri, quasi essi fossero lebbrosi e quasi il restringersi feroce di ogni popolo in sé stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza». Sono parole di Luigi Einaudi pronunciate il 29 luglio del 1947 all’Assemblea costituente. Il futuro presidente della Repubblica delinea il quadro che ha preceduto la Prima Guerra mondiale, sottolineando come già allora gli stati europei fossero un anacronismo rispetto ai mutamenti della realtà.

A 100 anni dalla fine del grande massacro del 14-18, invece di trionfalismi e festeggiamenti fuori luogo, una cosa utile può essere cercare di capire come evitare di ricascarci. Proprio per questo leggere oggi le parole di Einaudi mette i brividi di fronte al diffondersi, in Italia e in Europa, di una miscela esplosiva di sovranismo, razzismo e xenofobia: un giorno queste parole potrebbero essere usate, più o meno, per descrivere i giorni che stiamo vivendo?

L’attualità del pensiero europeista di Einaudi è stata rilanciata in questi ultimi mesi in vari ambiti, come l’articolo di Antonio Patuelli su Quotidiano nazionale (8 ottobre) oppure il saggio di Antonella Braga su «Il contributo liberale e azionista tra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi» pubblicato dalla rivista Eurostudium. In modo sintetico Patuelli e in maniera più analitica Braga ricordano l’utopia di chi voleva l’Europa unita, ma non a partire dall’economia, bensì da un progetto politico; l’utopia di chi sognava gli Stati Uniti d’Europa come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene. Abbiamo citato a proposito il termine «utopia», anche perché lo stesso Einaudi, in quel discorso del 1947, si chiede: «Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi a informare la propria condotta all’ideale di libertà?», per poi aggiungere che «ormai la scelta è soltanto fra l’utopia e la morte, fra l’utopia e la legge della giungla».

Così, di fronte a un’Unione europea che non sa riformarsi (alla quale va, comunque, riconosciuto il merito di aver garantito decenni di pace) e alle spinte di chi vorrebbe elevare barriere puntando «sulla propria autosufficienza economica» oppure di chi pronuncia «esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri», la cosa più sensata potrebbe essere quella che sembra un’utopia: gli Stati Uniti d’Europa (e non una semplice associazione di Stati europei che non cedono nulla della loro sovranità), contro il mito della sovranità assoluta degli Stati che Einaudi considera «il nemico numero uno della civiltà, della prosperità e della vita stessa dei popoli».

Nel lavoro di Braga, poi, è interessante il richiamo al ruolo del protestantesimo nel processo europeista. Braga, infatti, ricorda come Rossi e Spinelli, nel settembre 1943 (una volta caduto Mussolini e liberati dal confino) si rechino in Svizzera per cercare di raccordarsi con altri federalisti europei. Qui, il francese Jean-Marie Soutou (collaboratore del giornale clandestino Témoignage Chrétien) li mette in contatto con un pastore olandese che vive a Ginevra: Willem Visser’t Hooft, storico segretario del Consiglio ecumenico delle chiese. Nel bel libro scritto da Franco Giampiccoli (Willem A. Visser’t Hooft. La primavera dell’ecumenismo, Claudiana, 2015) viene citata la sua reazione alle sollecitazioni di Rossi e Spinelli: «Non ebbero alcuna difficoltà nel coinvolgermi in una collaborazione con loro, poiché ciò che proponevano era in linea con il pensiero e la progettazione che avevamo sviluppato nel movimento ecumenico». È proprio nella sua abitazione che, tra il 31 marzo e il 7 luglio 1944, si svolgono gli incontri che porteranno alla Dichiarazione federalista dei movimenti della resistenza europea. D’altronde, il parallelo tra unità dei cristiani e federalismo europeo è comune a diversi esponenti del protestantesimo di quegli anni. Le cose, poi, sono andate avanti in entrambi gli ambiti, ma non nel modo sperato dai «sognatori» di allora. 

Ecco che il ruolo delle Chiese europee, oltre alla puntuale denuncia delle derive xenofobe e razziste che si stanno affermando, potrebbe essere quello di aiutare l’Europa a riprendere quel sogno, ad avere una visione coraggiosa, utopistica eppure (o forse proprio per questo) più concreta delle scelte apparentemente pragmatiche. Un’Europa dei diritti, della solidarietà e della libertà. Forse, risvegliando questo sogno politico, le Chiese potrebbero a loro volta riprendere davvero il sogno, non meno visionario, dell’unità dei cristiani.