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I porti non sono veramente chiusi, ma lo stallo prosegue

Ancora nessuna soluzione per permettere l’attracco in un porto sicuro alle 49 persone migranti che si trovano a bordo delle navi Sea Watch 3 e Sea Eye, bloccate al largo delle coste maltesi, un caso che tocca da vicino anche l’Italia, che tra il 2016 e il 2017 aveva rappresentato il principale luogo di accesso all’Unione europea da parte dei richiedenti asilo. Ma sul tema sembra per ora non esserci nessuna apertura. «I porti italiani sono chiusi, abbiamo già accolto già troppi finti profughi», scriveva infatti su Twitter il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini.

Negli ultimi giorni in seno al governo italiano erano emerse in realtà posizioni più dialoganti, come quella del vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, che aveva proposto di permettere lo sbarco solo a donne e bambini, un’idea respinta però dal ministro Salvini, che sempre su Twitter ha affermato lunedì che «accogliere in questo momento sarebbe un segnale di cedimento» nei confronti dell’Unione europea. Mentre i due referenti politici del governo si scontravano, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha avviato una trattativa con gli altri Paesi europei per una redistribuzione, senza ottenere finora risultati concreti. Di conseguenza, per ora l’unica posizione a essere mantenuta è quella del segretario della Lega. Eppure, nonostante tutto non ci sono atti formali di chiusura dei porti italiani. A confermarlo è Cesare Pitea, docente di diritto internazionale presso l’università di Parma e collaboratore di ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che racconta che «non esiste alcun atto generale di chiusura dei porti, un atto che dovrebbe casomai essere disposto dal ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, non dal ministero degli Interni, e che comunque sarebbe soggetto a un controllo giurisdizionale di proporzionalità, di necessità. Un provvedimento di questo genere, come del resto è stato confermato da dirigenti di porti italiani, non esiste».

Allo stesso modo, non esiste un provvedimento di chiusura dei porti nemmeno in relazione allo specifico caso delle navi Sea Watch 3 e Sea Eye, perché in questo caso le imbarcazioni non hanno mai fatto direttamente richiesta di ingresso in un porto italiano, ma hanno seguito la procedura normalmente adottata in questi casi: lo scorso 22 dicembre, infatti, Sea Watch aveva contattato il centro di coordinamento della Guardia Costiera italiana e i suoi omologhi a Malta e nei Paesi Bassi (di cui la nave batte bandiera), ma qui le richieste sono state declinate affermando che il salvataggio, essendo avvenuto in acque libiche, va gestito da Tripoli. «I libici – chiarisce però Pitea – non hanno risposto. Quindi non solo la Libia non è un porto sicuro, ma le autorità libiche non hanno neanche risposto alla chiamata che è stata fatta».

Il governo italiano sta quindi mantenendo le proprie promesse di “sbarchi zero”? Non esattamente. Da quando le 32 persone a bordo della Sea Watch 3 sono entrate nel limbo in cui si trovano ancora oggi, sulle coste italiane sono infatti arrivate 165 persone, numeri estremamente bassi, ma comunque pari a cinque volte quelli intorno a cui la politica si sta avvitando da settimane. Quindi qual è il problema specifico di questa storia? «siamo di fronte – spiega Cesare Pitea – a un’operazione di propaganda contro le ong, perché l’obiettivo di questo sembra essere proprio l’attività di salvataggio delle organizzazioni non governative. Inoltre è un braccio di ferro per cambiare un quadro di regole che non sta funzionando, ma che viene fatto sulla pelle di persone, di esseri umani. Si strumentalizza la vita, la dignità, di 49 persone, tra cui bambini piccolissimi, come un bambino che ha circa un anno, e sulla pelle di queste persone il governo italiano, ma anche altri governi europei, forzano il tentativo di cambiare le regole, di manipolare le loro opinioni pubbliche e di costruire i loro consensi elettorali».

Come detto, il problema non riguarda soltanto l’Italia: in questi giorni è in corso un lavoro diplomatico, coordinato dalla Commissione europea, che coinvolge una decina di Stati membri, per individuare una soluzione che preveda la redistribuzione delle persone in tutta Europa, ma le resistenze dei singoli Paesi sembrano più forti dell’urgenza di agire. Il punto è che non si tratta di trovare una soluzione soltanto per i 49 che si trovano a bordo delle due imbarcazioni: i migranti da ridistribuire a questo punto sarebbero infatti più di seicento. Per dare il “via libera” allo sbarco, infatti, La Valletta chiede che il meccanismo di ripartizione si applichi anche alle 249 persone già accolte nei giorni scorsi, ma a quel punto la Spagna, che lo scorso 28 dicembre aveva fatto sbarcare nel porto di Algeciras i 310 profughi salvati dalla nave Open Arms, chiede parità di trattamento, dopo essersi fatta carico di un’operazione di salvataggio che l’Italia e la stessa Malta si sono rifiutate di compiere.

Lunedì la Commissione europea aveva sollevato il problema a Bruxelles, durante la prima riunione dell’anno tra gli ambasciatori dei Paesi dell’Unione, ma qualunque soluzione si dovesse trovare, per quanto necessaria, mostra ormai una verità innegabile: non è possibile che si debba sempre ricorrere a soluzioni temporanee, puntuali e specifiche, che ogni volta richiedono giorni di trattative e che mettono in pericolo la vita di chi rimane in mare in attesa. Tuttavia, la necessità di meccanismi stabili per gestire gli sbarchi viene ripetuta da mesi, senza però che si traduca in soluzioni concrete, capaci di coinvolgere tutta l’Europa a livello strutturale. Eppure, quella che da anni chiamiamo “emergenza migranti”, non ha niente di emergenziale, se non il metodo con cui viene affrontata. «C’è un quadro di regole internazionali sul salvataggio in mare – racconta il professor Pitea – che ha dimostrato la sua debolezza di fronte alla peculiarità della situazione libica, cioè di uno Stato fallito. L’idea è che il Mediterraneo è diviso in aree in cui ciascuno Stato costiero assicura i servizi di salvataggio e poi porta le persone a terra, le soccorre, poi queste persone continuano il loro viaggio. Ancora una volta non ci dimentichiamo che a monte di questa situazione c’è la chiusura dei canali legali per l’immigrazione: questo dal punto di vista normativo è il primo punto dal quale bisogna partire. Gli Stati europei hanno prima cercato di costruire la capacità della Libia di prevenire e arginare le partenze con un’operazione che è una finzione, e che confina le persone in situazioni di gravissime violazioni dei diritti umani, che secondo gli osservatori è paragonabile a quella dei lager nazisti, tanto per dare le dimensioni di questo fenomeno. Da un lato quindi si fa questa cosa moralmente e giuridicamente molto discutibile, dall’altra nel momento in cui si va a supplire all’incapacità delle autorità libiche».

Oltre all’assenza di canali legali d’accesso, alla base dello stallo attuale va individuato anche il Regolamento di Dublino, sulla cui riforma si è ormai arrivati a uno stallo. Il Regolamento di Dublino stabilisce che la competenza della prima accoglienza e dell’esame della domanda di asilo si radica sul Paese di primo ingresso, facendo quindi della geografia un punto politico. È esattamente, per contro, anche quello che sta facendo Malta. «Il motivo per il quale Malta non fa passare i migranti presenti sulla Sea Watch e sulla Sea Eye è che se lo facesse secondo le regole europee dovrebbe farsi carico di queste persone. Ovviamente il problema per Malta non sono queste 49 persone ma il fatto che per la sua posizione geografica, quella di una piccola isola nel centro del Mediterraneo, non ha la capacità di provvedere da sola ad affrontare questa situazione. Chiede la solidarietà europea, ma la solidarietà c’è solo attraverso la volontà e qui evidentemente la volontà politica non c’è».

Tra pochi mesi si andrà al voto per le elezioni europee. Scommettiamo che la volontà politica continuerà a non esserci?