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Un piccolo eretico italiano del Cinquecento

Negli ultimi mesi è in distribuzione il film “Menocchio” (di Alberto Fasulo, Italia-Romania 2018), che narra la storia di Domenico Scandella (detto appunto Menocchio), mugnaio processato e condannato dall’Inquisizione. La distribuzione (http://www.nefertitifilm.it) ha scelto non di fare uscire il film per un paio di settimane in tutta Italia, ma di organizzare, invece, poche proiezioni-evento itineranti. In questi giorni si sono tenute tre proiezioni a Palermo, prima città del sud a ospitare il film e la locale chiesa valdese è stata coinvolta nella presentazione. Chi scrive ha avuto l’onore di introdurre la pellicola insieme al regista.

Menocchio (1532-1599) nacque e visse a Montereale, un antico villaggio del Friuli, che oggi si trova in provincia di Pordenone e all’epoca faceva parte della Serenissima, e assunse il ruolo di guida spirituale del paese. Anche se finì sul rogo, il suo “ministero locale” durò incontrastato per decenni, probabilmente perché, prima che la reazione violenta alla Riforma protestante prendesse forma in maniera organizzata, l’habitat di Menocchio era stato sottovalutato: Montereale era fuori dalle rotte culturali urbane e la presenza della chiesa cattolica era data solo da una piccola pieve.

Questo è uno dei motivi per cui il film di Fasulo è da vedere: non sottovaluta Menocchio, ma ne racconta la storia come quella di un uomo fuori dall’ordinario. Menocchio non è il classico eretico italiano del Cinquecento, non è cosmopolita come Fausto e Lelio Sozzini o Giordano Bruno, non è un protagonista della Storia con la s maiuscola. È un membro della comunità contadina, che sa leggere e scrivere, che ragiona con la propria testa e diffida di qualunque schema di pensiero che contraddica l’esperienza empirica. Ad esempio, non credeva nella verginità di Maria perché, disse all’Inquisizione, «Quando mia moglie ha partorito mio figlio, non era vergine». Come non amava la chiesa dei preti di Roma, non amava neanche i luterani.

Il regista ha scelto di usare solo luce naturale, scelta che si è mostrata particolarmente riuscita. Solitamente per la narrazione cinematografica la luce naturale è un problema, ovviato da fari, filtri e post-produzione. Nel caso di “Menocchio”, invece, la luce naturale diventa veicolo della narrazione. Il buio del carcere non è mitigato per lo spettatore dal classico faretto azzurro, perché nella vita reale il prigioniero può al massimo consolarsi della fioca luce di una candela. Lo spettatore diventa cosciente della violenza torturatrice del buio, strumento per ammansire l’imputato, schiacciato dalla luce abbagliante dell’aula del processo.

Alla luce naturale si affianca la scelta di usare attori non professionisti, un po’ ideologica forse, ma efficace, soprattutto perché accompagnata dall’uso sapiente del primissimo piano, che aiuta a entrare in empatia coi personaggi,

La storia di Menocchio sfata alcuni miti, come quello secondo cui i contadini sono ignoranti, a differenza del cittadino. Invece, come non si è naturalmente istruiti, non si è naturalmente ignoranti. Menocchio aveva letto, tra le altre cose, la Bibbia e il Corano in traduzione italiana, oltre al Decameron: sapere che era più colto dei contadini friulani che hanno vissuto nei successivi due-trecento anni, ci fa capire che il mantenimento del popolo nell’ignoranza sia stato un obbiettivo delle classi dominanti, anche per evitare altri “incidenti”, altri contadini che aspirassero a discettare di Bibbia e fede. La scelta della Riforma fu, invece, di liberalizzare la cultura e l’istruzione, scelta non condivisa dalla Controriforma.

Per approfondire la storia di Menocchio, Carlo Ginzburg gli dedicò il volume “Il formaggio e i vermi” (Einaudi, Torino, 1975), al momento fuori commercio, ma che pare sia in ristampa. Nel frattempo, però, non dimenticate quelle miniere nascoste e sottovalutate che sono le biblioteche comunali, i cui cataloghi sono spesso consultabili online.