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Africa, verso l’area di libero scambio più grande al mondo

Domenica 7 luglio, al termine di quattro anni di negoziati, altri due Paesi dell’Unione Africana – Negeria e Benin – hanno sottoscritto il Trattato di libero commercio continentale africano, che oggi coinvolge 54 Paesi su 55. Soltanto l’Eritrea non partecipa a causa del conflitto con l’Etiopia, anche se la speranza è che il processo di pace avviato da Addis Abeba e Asmara possa condurre verso un’adesione.

L’accordo prevede la soppressione di circa il 90% delle barriere tariffarie non tariffarie che oggi rappresentano uno dei motivi della sistematica dipendenza delle economie dai Paesi africani da quelle di Europa, Stati Uniti e Cina e dalle multinazionali attive nello sfruttamento delle risorse naturali.

L’accordo continentale di libero scambio, AfCFTA, era stato sottoscritto per la prima volta nel 2018 da 44 Paesi, e da allora sono 27 i governi o i parlamenti che l’hanno ratificato. Si tratta dell’area di libero scambio più grande del mondo per numero di Paesi coinvolti.

 

Giacomo Zandonini, giornalista italiano che da anni vive e lavora in Niger, racconta che quello africano «rimane un mercato marginale all’interno del commercio mondiale. L’Africa rappresenta il 3% del volume complessivo del commercio mondiale, nonostante un miliardo e 300 milioni di abitanti e una crescita vertiginosa e anche dei dati economici in crescita». Tra questi spiccano il Ghana, l’Etiopia e lo stesso Niger, considerato il Paese più povero del mondo in termini di Indice di Sviluppo Umano ma con una crescita annuale compresa tra il 6 e il 7%. «Bisogna anche dire – prosegue Zandonini – che c’è un altro accordo che è stato lanciato e che però non ha ancora raggiunto il numero minimo di Stati aderenti per entrare in vigore, ovvero 22, e che è un protocollo sulla libera circolazione delle persone. Questo sarebbe un aspetto di libertà di movimento delle persone e integrerebbe, o secondo alcuni aumenterebbe, i benefici economici dell’area di libero scambio come è avvenuto in Europa».

La questione della crescita del Pil, in effetti, potrebbe far pensare a economie floride e che si stanno rapidamente avvicinando a economie sempre più statiche come quelle europee. Eppure, finora questa crescita è stata guidata soprattutto dal settore terziario e dalla cessione di materie prime, minerarie ed energetiche, ai Paesi europei e alla Cina. Inoltre, rimane sul tavolo la questione del debito, che continua ad aumentare in tutto il continente.

 

Quando si parla di Africa, non è possibile tenere fuori dal quadro il tema delle migrazioni. In che modo questa area di libero scambio potrebbe incidere in questo senso?

«Diciamo che c’è un ottimismo abbastanza forte da parte di alcuni Stati aderenti che hanno trainato questo progetto e che già sono degli attori importanti nelle comunità economiche regionali: il Ruanda, il Kenya, il Sudafrica, ma anche la Nigeria, che è stata il penultimo Stato ad aggiungersi con la sua potenza economica ma anche con molte disuguaglianze e contraddizioni. C’è quindi ottimismo per un aumento del commercio intra-africano, ma anche perché un trattato di questo tipo aumenti l’impiego».

 

Non sappiamo praticamente nulla del mercato del lavoro africano: a oggi quali sono i numeri in ingresso?

«Questo è un grande problema pratico: ogni anno entrano nel mercato del lavoro nel continente africano milioni di persone. Ci sono stime diverse, ma l’Unione Africana dice che sono dodici milioni, e su questi dodici milioni solo uno su quattro trova un impiego. Ci sono stime anche molto più pessimistiche. Quindi significa che c’è un’urgenza di trovare chi ha delle opportunità lavorative e quindi sviluppare in loco l’industria. Si è parlato molto, per esempio, di sviluppo del cosiddetto agrobusiness, quindi l’imprenditoria anche in ambito rurale per aumentare la produttività e una serie di ricette proposte, chiaramente molto complesse, che richiederanno decenni. Quindi si è detto che questo trattato potrebbe anche rispondere in parte ai bisogni di chi parte cercando fortuna altrove, magari anche diplomati africani, persone con dei livelli di studio buoni che però non trovano nessuna opportunità nel mercato del lavoro locale. Chiaramente sono dinamiche molto di lungo periodo. C’è anche chi vede dentro questa area di libero scambio una minaccia per i diritti dei lavoratori, ma sicuramente l’Unione africana in un senso più ampio potrebbe negoziare a un livello più equilibrato con partner commerciali importanti, aumentando un po’ il proprio peso anche politico. Anche questi sono processi insomma di lungo periodo. Per il momento rimane un grande movimento di persone nel continente africano, la maggior parte dentro l’Africa e qualcuno ancora qui ad Agadez, dove si cerca di passare per attraversare il deserto del Sahara e poi entrare in Libia nonostante le condizioni di detenzione e di vita in Libia e i rischi di tutto questo viaggio».

Ecco, proprio il Niger è un luogo centrale sia per le migrazioni sia per le materie prime, ma marginale a livello di ricchezza. Come si è reagito lì a questo accordo?

«È interessante il fatto che il Niger, che ha avuto un ruolo fondamentale a livello diplomatico nell’entrata in vigore di questo accordo di libero scambio e ha ospitato il summit dell’Unione Africana, sia uno degli Stati che sarà esente per alcune delle misure più di riduzione dei dazi più immediate, perché ci sono sei stati che sono stati identificati come più fragili, più esposti agli effetti negativi di questa riduzione dei dazi e quindi con un’economia molto fragile, basata sulle importazioni ma anche con forte esportazioni di materie prime che non vengono poi lavorate in loco. Pensiamo all’uranio, al petrolio e poco altro. Il Niger ha bisogno in qualche modo di proteggersi».

Foto di Rolandhttps://www.flickr.com/photos/rolandh/6246514938/, CC BY-SA 2.0, Collegamento