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Che cosa ci insegnano i migranti sulla fede?

Il libro si apre con un aneddoto significativo. In una conferenza Paolo Naso, uno dei curatori del nostro testo, qualche tempo fa chiese ai presenti quale fosse secondo loro la percentuale degli islamici rispetto alla totalità degli immigrati e per aiutarli propose tre cifre, una esatta e due sbagliate. La platea, pur composta da persone in genere informate, rispose con la cifra più alta: gli islamici, dissero, rappresenterebbero il novanta per cento degli immigrati. Sbagliato. La cifra corretta è circa il trenta per cento. L’episodio, se vogliamo, è marginale; ma è significativo perché indica la percezione che in genere si ha del fenomeno, una percezione veicolata attraverso i mezzi di informazione e la propaganda. E dà il senso della diffusa non-conoscenza del fenomeno migratorio, soprattutto dal punto di vista della fede. Questo fatto rende importante il libro che stiamo esaminando*, perché vuole presentare, attraverso una analisi sociologica accurata, proprio questo aspetto nelle sue varie sfaccettature. 

Una succosa prefazione di Alberto Melloni, da cui abbiamo tratto l’episodio citato, ci introduce ai temi del libro. Segue una presentazione dei tre curatori (tutti e tre esperti nel campo), in cui si fa il punto sugli studi del settore, con frequenti riferimenti alle ricerche effettuate soprattutto negli Stati Uniti. A questo fanno seguito tre filoni di ricerca: il primo riferito al mondo islamico, con particolare attenzione rivolta alla figura degli Imam, il secondo riferito alla realtà ortodossa rumena e alla rete di sostegno che questa realizza per le persone in difficoltà e infine viene presentata una inchiesta su alcune comunità etniche di tipo pentecostale dell’area milanese. 

Non possiamo qui riportare tutti gli stimoli che la lettura di questa testo ci ha suggerito; ma alcune considerazioni si possono fare. Innanzitutto è importante dire che conoscere” significa anche “riconoscere”. Troppo spesso, infatti, non ci curiamo di sapere chi sono “gli altri”: che cosa pensano, come vivono il loro essere in una “terra straniera”. Ci bastano i nostri stereotipi. Invece, cercando di conoscerli per quello che essi veramente sono, diamo loro un volto, una umanità.

In secondo luogo, c’è anche l’aspetto sociologico – o forse sarebbe meglio dire: psicologico – da tenere presente: per il migrante la chiesa, o la moschea, rappresentano anche la casa lontana. Lo vediamo pure nelle nostre comunità, dove spesso, finito il culto, gli italiani ritornano a casa, mentre gli immigrati rimangono lì per pregare o per mangiare e “fanno casa” nei locali della chiesa.

Ultimo ma non meno importante, vi è anche un aspetto teologico da considerare: l’immigrazione, o meglio, gli immigrati con la loro spiritualità così intensa cambieranno la cristianità che pare ormai preda della secolarizzazione? A dir la verità, c’è chi spera che sia i “nuovi cristiani” sia gli islamici, una volta inseriti nella cultura occidentale, si secolarizzino e si “raffreddino” in modo da sopire le possibili tensioni derivanti dai differenti modi di vedere la vita. È chiaro che l’incontro/scontro di tradizioni diverse, che sono il frutto di una storia secolare, impone il passo lungo e faticoso della conoscenza e del rispetto reciproco. E anche la capacità di visione per scoprire che il mondo di domani non è necessariamente la ripetizione del passato. È infatti possibile che l’incontro con nuove persone porti anche questo stanco Occidente a porsi delle domande – e a darsi delle risposte. Non è forse questa la scommessa su cui le nostre chiese si stanno impegnando ormai da un paio di decenni con l’esperienza di “Essere Chiesa insieme”?

* Maurizio Ambrosini, Paolo Naso e Claudio Paravati (a c. di), Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione. Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 296 euro 25,00.