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Femminicidi e violenze, l’emergenza quotidiana

L’ultimo rapporto pubblicato dall’Eures sui femminicidi e la violenza di genere disegna un quadro di vera emergenza, di un Paese, l’Italia, in cui la differenza di genere è sempre più marcata e in cui la famiglia non è un luogo sicuro.

Il dato più allarmante è quello che riguarda i femminicidi, in crescita anche nel 2018: sono state 142 le donne uccise (+0,7%), di cui 119 in famiglia. In parallelo, aumentano anche le denunce per violenza sessuale, stalking e maltrattamenti in famiglia, un segno di una crescente consapevolezza, ma che non trova una sponda nelle scelte politiche: i fondi per i centri antiviolenza, infatti, sono sempre insufficienti, al punto da non garantire a questi luoghi e progetti un orizzonte di programmazione.

La questione non riguarda soltanto l’Italia, perché il nostro Paese segue una tendenza simile a quella di altri Paesi, ma colpisce in un momento storico in cui tutti gli altri crimini nel nostro Paese sono in netta diminuzione.

Il fenomeno è molto complesso e articolato, e sicuramente non va ridotto ai semplici aspetti numerici. I piani coinvolti sono molti. A sottolinearlo è Stefania Campisi, operatrice dei centri antiviolenza Le Onde, parte della rete Di.re. Donne in Rete contro la violenza, secondo cui «come il fenomeno della violenza contro le donne è un fenomeno complesso e articolato, chiaramente ha la necessità di risposte articolate e complesse che attengono a vari livelli».

Partiamo dal più ovvio: la politica. A fronte di un fenomeno che ha tutti i caratteri dell’emergenza, esiste una risposta adeguata a questo livello?

«Sicuramente sul piano di scelte di investimenti, di fondi per la prevenzione e il sostegno alle donne vittime di violenza, manca un piano importante. Il numero di donne uccise spaventa, perché se lo guardiamo anche nel suo complesso è altissimo: l’indagine dice che dal 2000 a oggi sono 3230, quindi un numero che dovrebbe farci saltare dalle sedie. In realtà questo dato dev’essere letto anche insieme agli altri presenti nella ricerca, quindi con un aumento delle denunce rispetto ai reati di violenza sessuale e di stalking».

Che cosa significa questo aumento di denunce?

«Vuol dire che le donne, le giovani donne, iniziano a conoscere e utilizzare gli strumenti legislativi che sono stati messi in campo in questi anni. Dal 2013 con la legge sul femminicidio c’è stata un’importante presa di posizione normativa, e sarebbe importante che fosse accompagnata anche a dei fondi che vanno a sostenere chi operativamente nei territori sostiene e accoglie le donne che sono vittime di violenza da parte di uomini. E questo è l’altro dato che in parallelo bisogna tenere presente: la ricerca Istat fatta congiuntamente al Cnr sui centri antiviolenza, e quindi anche sulle risorse che sono state erogate a questi centri, mostra risorse insufficienti o laddove vengano effettivamente stanziate non riescono ad arrivare poi ai centri antiviolenza per fantomatici problemi burocratici».

Di quali numeri si parla?

«L’indagine Istat rileva che sono 43.000 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza in Italia. Nella nostra rete, la rete Di.Re., con oltre 100 centri antiviolenza in Italia, ne abbiamo accolte circa 23.000 l’anno scorso. Rispetto ai 12 milioni che erano stati erogati nel periodo in cui è stata svolta la ricerca, stiamo parlando di 76 centesimi di euro al giorno a persona dati ai centri antiviolenza. È una cifra ridicola».

Da una parte le leggi, dall’altra i fondi. C’è un terzo elemento da considerare: la cultura, perché se guardiamo questo fenomeno e lo confrontiamo con quello degli omicidi per rapina vediamo che l’uccisione di donne è circa 8-9 volte più incidente in un anno rispetto a quello degli omicidi per rapina. Eppure, si è costruita una percezione dell’emergenza rapine al punto da avere una legge sulla legittima difesa sempre più permissiva, mentre un fenomeno come il femminicidio non viene quasi percepito nel dibattito quotidiano. Come si spiega questa relativa invisibilità?

«Si spiega nella cultura che stiamo vivendo e nelle connotazioni che attribuisce al ruolo maschile e femminile. È una cultura che propone un modello dispari, un modello che risponde proprio alla definizione della violenza, cioè un rapporto in cui c’è una disparità, in cui viene agito un potere. La cultura che stiamo vivendo in questo momento, ma è la cultura degli ultimi anni, riafferma il potere accentrato nel ruolo maschile».

È possibile lavorare sulla prevenzione culturale?

«I centri antiviolenza fanno anche questo lavoro, che non è solo quello di accogliere le donne che chiedono aiuto ma anche quello di andare ad informare e sensibilizzare, facendo un lavoro di prevenzione soprattutto nelle scuole. Andiamo nelle scuole proprio per raccontare quanto una relazione tra uomini e donne debba essere basata non solo sulla parità ma sul rispetto e sulla reciprocità mantenendo e garantendo le individualità di ogni singola persona. La cultura che stiamo vivendo ci propone dei modelli dominanti, sempre maschili, e lo possiamo vedere nel mondo del lavoro: ci sono dati che si leggono immediatamente rispetto alle posizioni dirigenziali e la disparità degli stipendi. È un ragionamento che viene riproposto da anni, è trent’anni che si parla della parità nei luoghi di lavoro, della parità di reddito, ma non c’è ancora, e lo possiamo a vedere anche nelle relazioni amicali e affettive nella nostra quotidianità».

Ecco, torniamo al punto di partenza: la famiglia non è un luogo sicuro. Anche questo è legato a modelli culturali?

«Esistono modelli di famiglia che incontriamo quotidianamente e ci mostrano quanto il ruolo dell’uomo sia ancora il ruolo di chi assume le decisioni, è un ruolo di potere. Lo possiamo a vedere nel linguaggio dei mass media, come il ruolo e il corpo della donna vengono rappresentati al contrario del ruolo e del corpo dell’uomo. È chiaro e lampante a tutti ormai che c’è una rappresentazione del femminile in cui la donna viene resa oggetto di qualsiasi cosa, può essere un oggetto con uno scopo di vendita, può essere utilizzata come oggetto nelle contrattazioni e quindi un corpo che viene abusato, maltrattato, oppure sminuito. Ci sono ultimamente anche delle riflessioni interessanti sui libri scolastici: anche lì il ruolo della donna è sempre relegato a professioni quali la casalinga la segretaria o l’infermiera, mentre il ruolo e le professioni degli uomini sono indicate come dottore, astronauta o professore. È lì che si insinua una cultura che non è pari e non è rispettosa dell’altro o dell’altra. È proprio nelle nostre relazioni nella nostra quotidianità e nel linguaggio che usiamo nelle metafore che utilizziamo quotidianamente».