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Contenere i virus ( e anche le parole)

Da Manzoni fino a Ammaniti passando per Camus. Capita in questi giorni di tornare ai racconti di una delle paure ancestrali per il genere umano: il contagio, il pericolo che non si vede, la malattia che arriva dall’aria. È uno degli effetti del nuovo coronavirus, partito probabilmente dai mercati di una remota regione della Cina e arrivato fino alle nostre città, costringendoci a misure di contenimento straordinarie. Chiuse le scuole in molte Regioni, chiuse le porte dei musei, degli stadi e dei cinema, cancellati i grandi eventi. Il virus è diventato “il” tema non solo sui giornali e in tv, ma nelle conversazioni reali e virtuali. Abbiamo visto supermercati svuotati (isolati magari, ma affamati mai), un ignobile mercato nero di disinfettanti e mascherine, peraltro utili solo a chi è malato o assiste un malato. Siamo stati sommersi da informazioni a volte contraddittorie, da consigli su improbabili (e costosi) sistemi per depurare l’aria o integratori per proteggerci. Dopo un’ondata di catastrofismo, ora sembra l’ora del reflusso: “tutto questo bailamme e la Borsa che va giù per una banale influenza”.

È davvero così? No. Con il Sars-CoV-2 è comparso un agente patogeno nuovo per l’uomo, di famiglia nota (i coronavirus, appunto) ma mai incontrato prima dal nostro sistema immunitario e perciò imprevedibile. Per ora non esistono vaccini né terapie consolidate per le complicanze più gravi. Al momento il virus appare innocuo per l’85 per cento dei contagiati, ma ne manda il 5 per cento in terapia intensiva. Facile immaginare l’impatto di un’epidemia incontrollata in un Paese che conta 14 milioni di ultrasessantacinquenni e alcune migliaia di posti letto in terapia intensiva già in buona parte occupati da vittime di incidenti, ustioni, infarti e via dicendo. Insomma, il rischio statistico individuale pare basso, ma quello per il sistema sanitario è alto e giustifica le misure adottate. Detto ciò, vale la pena fare alcune riflessioni.

Comunicare la complessità e l’incertezza è difficile. Parlare di prevenzione dei rischi significa raccontare ciò che non c’è ma potrebbe essere, è un dialogo che riesce se c’è fiducia in chi sta parlando. Perché ci fidiamo del meteo e prendiamo l’ombrello se dà pioggia, mentre molti di noi ignorano le raccomandazioni dei medici e aspettano i titoli in cronaca per correre a vaccinarsi? Forse perché siamo un Paese con grossi problemi di dimestichezza con il linguaggio della scienza, perché non sempre giornalisti e comunicatori sono all’altezza del momento. Abbiamo letto di “strage” e di virus che “dilaga”, abbiamo visto battibecchi fra scienziati fuori luogo e fuori tempo. Questa, poi, è forse la prima epidemia da social network (ai tempi della SARS Twitter non esisteva e Facebook era un neonato), che permettono di parlare a tutti in tempo reale, ma centrifugano opinioni polarizzate e non sempre utili. 

Siamo nell’epoca dei big data e certi fenomeni sono studiati in modo scientifico. L’Organizzazione mondiale della Sanità da anni avverte che il mondo globalizzato deve essere pronto a gestire nuove epidemie: «il punto non è se arriveranno, ma quando e quanto saranno gravi». Buon per noi, il titanico esperimento di prevenzione che ha visto decine di milioni di cittadini in Cina chiudersi in casa ha funzionato, e ci ha dato tempo per prepararci. Ora tocca a noi europei fare il possibile per limitare il danno ed evitare che il virus si diffonda troppo in fretta dove i sistemi assistenziali sono più deboli. Se funzionerà e i numeri rimarranno limitati, inevitabilmente qualcuno riterrà che si è gridato inutilmente “al lupo, al lupo”. Ce lo auguriamo. 

Intanto però abbiamo un’occasione importante. È ora di imparare a migliorare la cultura delle emergenze, capendo come contenere i virus ma anche le parole. È ora di raccontare di quella stragrande maggioranza di cittadini che fa la sua parte con calma e solidarietà. Di quanto conta vivere in un posto in cui ai pazienti non si presenta il conto per i tamponi e la rianimazione. Di imparare a leggere o ascoltare senza pretendere di avere già capito tutto. A pensare prima di postare o condividere. A sentirci in dovere di proteggere chi è più fragile, anche se “anziano”, “già malato”, “già compromesso”. Da questo dipende la nostra guarigione come comunità.