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Razzismo negli usa, imparare a guardare con gli occhi degli oppressi

L’omicidio di George Floyd ha provocato un’esplosione di indignazione e proteste antirazziste non solo negli Usa ma anche in diverse piazze del mondo. Perché?, mi sono chiesta, dal momento che Floyd non è stato il primo AfricanoAmericano [negli Usa si dice AfricanAmericans, volendo sottolineare il fatto di essere interamente africani e interamente americani, ndr] ucciso brutalmente e ingiustamente dalla polizia, la cui morte è ripresa in un video. Credo che la risposta stia nel fatto che attraverso le immagini sconvolgenti di quei lunghi minuti – quasi 9 – in cui il poliziotto bianco soffocava con il suo ginocchio quel giovane nero, una finestra si è all’improvviso spalancata sul sistema razzista di violenze e abusi disumanizzanti compiuti quotidianamente dalla polizia. Abbiamo visto bene il viso del poliziotto che calmo e indifferente, con una mano in tasca, ha ignorato le suppliche di aiuto di Floyd («non posso respirare»); abbiamo assistito alla complicità degli altri poliziotti che hanno contribuito all’omicidio senza interromperlo; abbiamo visto i movimenti affannati dell’ufficiale che cercava di coprire con il suo corpo le azioni dei suoi colleghi che venivano riprese da un cellulare. Sono state immagini chiare che hanno fatto luce su un sistema di normalizzazione della violenza basato su una cultura di discriminazione e disumanizzazione che da secoli si protrae contro i Neri con quasi assoluta impunità. Dinanzi a immagini così inequivocabili non è più possibile ignorare o manipolare i significati di questa realtà.

Aggiungerei poi che le immagini dell’omicidio di Floyd sono state anche uno specchio attraverso cui abbiamo visto riflessa la nostra corresponsabilità – noi persone bianche che ci dichiariamo contro il razzismo e ogni tipo di discriminazioni, noi chiese che predichiamo pace e giustizia sociale. Come è possibile infatti che dopo più di 50 anni dalle conquiste e riforme nate dal movimento dei diritti civili, le pratiche razziste continuino a essere la norma, invece che un’aberrazione? Significa che anche noi siamo rimasti e rimaste indifferenti di fronte agli effetti di un sistema di sfruttamento e oppressione; anche noi abbiamo preferito rimanere in silenzio anziché esporci; anche noi, come Pilato, abbiamo delegato le responsabilità ad altre persone e altri gruppi (i conservatori, il Ku Klux Klan, Trump….), sostenendo riforme-palliativi che hanno mantenuto intatti i nostri privilegi sociali ed economici cui ci è difficile rinunciare. 

Non meraviglia allora che da più voci della comunità AfricanoAmericana vengano richieste di revisioni del nostro impegno e dei nostri valori. Il pastore Irwin Ince Jr., direttore dell’Istituto per la Missione interculturale di Washington, D.C., ha affermato a esempio che anche le chiese che si fanno promotrici di una pluralità etnica e culturale sono spesso ancorate a un significato superficiale della diversità che ha come punto di riferimento le norme culturali dei Bianchi, rendendosi complici di strutture e rapporti che ne rafforzano la supremazia. Ho pensato alla mia chiesa qui negli Usa: è molto liberale, antirazzista, impegnatissima nel sociale, eppure la musica, la liturgia, lo stile della predicazione, il modo di interagire, riflettono una cultura specificamente bianca, di origine nordeuropea, che non viene messa in discussione e lascia spazi marginali a un diverso tipo di espressione della spiritualità. Un’attivista di Black Lives Matter, operando un’acuta distinzione tra essere “alleati” e “complici”, ha detto: «A voi Bianchi che siete nostri alleati, noi chiediamo di diventare nostri complici».

Gli alleati – ha spiegato – vanno e vengono, ci sono quando vogliono e quando possono; i complici, invece, rimangono insieme in ogni circostanza, soffrono insieme e insieme affrontano le conseguenze delle loro azioni. Si tratta dello stesso appello che il pastore Al Sharpton ha ripetuto in continuazione durante il suo elogio funebre a George Floyd: «Togliete il ginocchio dal nostro collo perché non possiamo respirare». Riferendo al plurale la frase detta da Floyd, Sharpton ha rivolto l’appello a noi Bianchi corresponsabili di un sistema di sfruttamento che per quattro secoli ha permesso la sottrazione di risorse vitali al popolo dei Neri, impedendo il libero sviluppo delle loro vite. 

Questi appelli ci invitano a cambiare la nostra ottica, a guardare dal punto di vista di chi è oppresso, a trasformare significati e narrative sulla realtà del razzismo e sui metodi per combatterlo, che non siano a buon mercato, e ci vedano parte attiva di un sistema che ci riguarda. Lo storico Ibram Kendi, professore e direttore del Centro di Ricerca e politica dell’antirazzismo all’American University di Washington, D.C., ci aiuta in questa revisione dei significati ricordandoci che il razzismo è un sistema che crea false gerarchie dei valori umani, tra chi è superiore e chi è inferiore e tra ciò che è superiore e ciò che è inferiore. La logica del razzismo, radicata anche nei nostri contesti religiosi, va oltre il modo in cui guardiamo e interpretiamo le diverse etnie e colori della pelle e si estende al modo in cui trattiamo le persone di diverso sesso, identità di genere e tipi di abilità (mentale e corporale), determinando anche il modo in cui vediamo e valutiamo noi stessi e noi stesse. In quest’ottica, essere anti-razzisti, significa partecipare attivamente per la trasformazione delle politiche, strutture e culture di discriminazione e razzismo.

Ci sono ora due proposte di linee di azione, sulle quali è in corso un acceso dibattito. C’è la linea portata avanti soprattutto dai Bianchi moderati che chiedono un’ennesima, costosa, riforma della polizia (più fondi per le videocamere, per seminari di formazione sulla diversità), e quella proposta dal movimento Black Lives Matter che chiede una revisione dei significati di protezione, sicurezza e giustizia basati su rapporti di uguaglianza, sul lavoro, nei rapporti finanziari, nei rapporti di genere (demilitarizzazione della polizia, riforma del sistema giudiziario e carcerario, investimento di gran parte delle risorse economiche alle comunità locali per garantire accesso equo ad assistenza sociale e sanitaria, alloggio, istruzione, e progetti di sviluppo e di emergenza sociale).

Questo è un momento importante per la vita degli Stati Uniti e per la nostra società globale. Dopo secoli di complicità nella solidificazione di sistemi e culture razziste, noi credenti siamo chiamati a impegnarci in percorsi di giustizia intesa come guarigione e redenzione. Guarigione dal trauma individuale e sociale per le vittime di soprusi, violenze e ingiustizie, riconoscendo la nostra complicità in quei delitti; e guarigione dal nostro proprio trauma, consapevoli che, ferendo e disumanizzando l’altro, abbiamo danneggiato la nostra stessa umanità. Impegnandoci a percorrere con fede percorsi di riparazione che portino a quelle guarigioni, possiamo trasformare questo momento di crisi sociale in un kairós, tempo di speranza e grazia, che riavvicini le comunità divise in un’unica comunità redenta.