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Bihac, una prigione a cielo aperto

Come annunciato durante il Discorso sullo Stato dell’Unione europea, pronunciato lo scorso 16 settembre dalla presidente della Commissione Europea Von der Leyen di fronte al Parlamento, mercoledì 23 verrà presentata la proposta per un nuovo Patto sulle Migrazioni. Si tratta di un documento d’indirizzo che disegnerà l’approccio ideologico e pragmatico dell’esecutivo europeo per riformare le varie norme che compongono il sistema migratorio dell’Unione europea. Tra i punti centrali, già annunciati nei giorni scorsi, spicca il tema del rafforzamento delle frontiere esterne. Eppure, viste da fuori, le barriere all’ingresso nell’Unione sembrano già piuttosto alte.

Prima di arrivare alla zona Schengen, infatti, si deve passare da diversi terrritori, tra cui la Bosnia-Erzegovina, territorio apparentemente marginale per i percorsi migratori, ma diventato sempre più importante con la progressiva chiusura delle altre linee della cosiddetta “Rotta balcanica”.

Alla fine del 2019, le autorità bosniache avevano raggiunto un accordo per trasferire le persone migranti che vivono in condizioni disumane nel campo di Vucjak, presso Bihać, capoluogo del cantone dell’Una-Sana. La tendopoli, che era stata allestita nel giugno 2019 per ospitare le persone migranti che non erano accolte dentro i campi ufficiali di Bihać, gestiti dall’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (Oim), era stata costruita sopra una discarica, di fianco a un campo minato. Per mesi questo luogo era stato criticato dalle istituzioni, dagli attivisti, dai volontari, dai membri delle commissioni che si occupano dei diritti umani, dalle Nazioni Unite, e anche da Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che all’inizio di dicembre aveva chiesto l’immediata chiusura di questo luogo. Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica di IPSIA-ACLI, racconta di una situazione tutt’altro che migliorata. «Il campo di Bihac è gestito dall’Oim ed è uno dei più grandi della Bosnia-Erzegovina, con più di 1500 persone. Quello che è successo quest’anno è un susseguirsi di eventi nefasti, a partire dal coronavirus che ha impattato ovviamente anche questo Paese seppur in maniera diversa che per esempio l’Italia, e che sulla vita e sulla pelle dei migranti ha significato rimanere chiusi, bloccati dentro i campi per quattro mesi circa».

E poi cos’è successo alla riapertura, a giugno 2020?

«Ovviamente le persone hanno cominciato nuovamente a muoversi verso i confini con la Croazia per arrivare poi attraverso il “game” alle nostre frontiere. Questo è importante: in Italia si parla spesso dell’arrivo sulle nostre coste e su quelle della Grecia, ma il punto è che le persone che arrivano in Grecia passano poi a piedi dalla rotta balcanica e di riffa o di raffa arrivano al confine triestino. Diciamo che i numeri medi parlano di almeno 20.000 arrivi via terra su questa rotta, che arrivano appunto fino al confine triestino per poi disperdersi nuovamente in mille rivoli. Tornando a Bihac, le persone hanno ricominciato a muoversi con l’apertura dei campi e tutta la rotta si è rimessa in movimento, dalla Grecia, per la Macedonia, la Serbia, per arrivare appunto in Bosnia, e le persone che passano da Bihac e da un’altra cittadina che si chiama Velika Kladuša, anche questo al confine con la Croazia, sono diventate moltissime».

Come ha reagito il governo locale?

«Il governo del Cantone di Una-Sana, che è una regione che appunto fa parte di questo complesso sistema politico della Bosnia-Erzegovina, ha emanato l’ennesima direttiva contro i migranti, dicendo che non possono prendere gli autobus. Questo in parte era già in atto, nel senso che li obbligavano a scendere, però ora hanno vietato anche il movimento interno al cantone stesso. Inoltre, la popolazione locale ha cominciato a manifestare. Ci sono state a fine agosto delle proteste sia a Velika Kladuša e poi successivamente a Bihac, a cui è seguita l’ennesima decisione del cantone di Una-Sana secondo cui nessun nuovo registrato può accedere ai campi sul territorio. Il fatto però è che non stiamo parlando di immigrazione illegale: le persone che entrano in Bosnia si registrano come richiedenti asilo e hanno un foglio che li legittima a rimanere sul territorio dello Stato bosniaco-erzegovese fino a quando non espleteranno tutta la procedura, per cui sono tutelati come tutti quanti dalle convenzioni internazionali. Nessuno potrebbe vietare loro l’accesso ai campi e alle strutture, nessuno potrebbe vietare loro la possibilità di muoversi con taxi, autobus e altri mezzi di trasporto, invece tutto questo viene fatto violando costantemente la loro dignità, la loro libertà e i loro diritti».

Qual è il risultato?

«Chiunque arrivi adesso nel Cantone di Una-Sana non ha un posto dove stare fisicamente. Le persone devono stare negli squat, nelle fabbriche abbandonate, nelle case distrutte, nei boschi, le jungle, come come le chiamano loro, con la polizia e la popolazione locale che danno loro la caccia. Abbiamo persone che tirano le pietre, residenti locali che fermano gli autobus sui quali i migranti arrivano ai confini del Cantone di Una-Sana, la polizia che va all’interno di questi squat a prendere la gente e deportarla sulle linee di confine del Cantone. E l’inverno sta arrivando. Nei Balcani le temperature scendono drasticamente, le escursioni termiche fra il giorno e  la notte sono molto drastiche e le persone che non hanno un ricovero nei campi sono del tutto impreparate a quello che sarà il prossimo autunno e inverno».

Nel nuovo Migration Pact che verrà presentato mercoledì dalla Commissione europea si parla della volontà di rafforzare le frontiere esterne. Quella bosniaca è già una frontiera abbastanza chiusa, su cui oltretutto vengono spesso chiusi gli occhi di fronte ai respingimenti della polizia croata. Con l’idea di un ulteriore innalzamento di barriere, non si rischia di rendere questi luoghi sempre più dei punti di arrivo in cui nessuno vuole stare per davvero?

«Io credo che intanto il confine croato sia bello controllato già adesso di suo e che comunque l’Unione Europea abbia già abbondantemente finanziato lo Stato croato per il controllo della frontiera. Dal punto di vista del mantenere le persone nei campi, questo significa non voler trovare una soluzione politica, ma soltanto usare questo “cerotto” che alimenta il mercato umanitario, che qui muove molti soldi.

Credo che sul caso della Bosnia-Erzegovina ci sia da riflettere tanto, nel senso che la gestione della migrazione in questo Paese in un certo senso sta risollevando una serie di temi legati agli anni ‘90 e alla fine della guerra civile in ex Jugoslavia: questa divisione amministrativa tra la Repubblica Srpska, la Federazione Croato-musulmana e i dieci cantoni sta dimostrando tutta la sua fragilità anche su questo tema, che è molto caro all’Europa, a cui la Bosnia-Erzegovina in teoria dovrebbe ambire. Inoltre bisogna anche pensare a questa sorta di “aiuto” delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite: a me sembra che l’intervento dell’Oim ricordi l’intervento delle Nazioni Unite negli anni ‘90, i famosi “caschi blu” che dovevano fare da interposizione tra le parti in guerra o quantomeno salvaguardare la popolazione civile. Se dovessi esprimere con un termine quella che è la missione Oim in Bosnia-Erzegovina, direi che è un fallimento internazionale. Ci vogliono centri di accoglienza, abbiamo in media almeno 9.000 persone in uno Stato abbastanza piccolo, che ha due milioni e mezzo di abitanti. In Serbia ci sono 18 centri per l’asilo e il transito, qui in Bosnia ne abbiamo solamente 7. E questa cosa non è sopportabile su un’unica regione, questo è un problema reale».

Se c’è una cosa che le rotte migratorie hanno insegnato in questi decenni, è che è inutile provare a chiudere qui, chiudere là, chiudere a Nord, chiudere a Sud, perché queste rotte sono prima di tutto un fenomeno socio-culturale molto più grande del solo evento di questi ultimi anni e quindi tendono a mutare forma. Come potrebbe essere superato il blocco bosniaco, contando che appunto non possiamo immaginare ci saranno grandi aperture di confine?

«La rotta balcanica ha la caratteristica di essersi conformata alle chiusure con almeno tre diversi spostamenti nel corso degli anni, dall’Ungheria alla Croazia e alla Bosnia. La Bosnia-Erzegovina ha un confine enorme con la Croazia, veramente enorme, a nord va lungo tutta la parte dell’Erzegovina, per cui noi stiamo già assistendo a dei rivoli, dei piccoli spostamenti per cui le persone e i trafficanti, perché ricordiamoci che le rotte si basano su disegni fatti da persone che di mestiere fanno appunto traffico e trasporto, hanno già delle alternative. Ora che la Bosnia-Erzegovina blinda tutto il suo confine con la Croazia, passerà molto tempo, e credo che dei rivoli saranno quelli su altre località che non siano Bihac e Velika Kladuša, che rimangono più comode perché sono più “vicine” poi alla Slovenia e quindi all’area Schengen. C’è ancora tanto territorio da superare, volendo anche sulla fascia costiera o sulla fascia a nord del Paese, appunto con la Croazia, quindi probabilmente la Bosnia manterrà una sua importanza in termini geografici ancora per un po’».