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Il dono di essere minoranza

“Per l’impegno profuso ad ogni livello locale e internazionale, in ambito ecumenico, nella difesa dei diritti umani e della libertà religiosa. Per il suo contributo di approfondimento scientifico testimoniato dai suoi numerosi studi e scritti. Per avere saputo interpretare la dimensione comunitaria della Città, attraverso la guida della Chiesa metodista e valdese, integrando la dimensione pubblica e privata della sua missione, coniugando fede e impegno civile, cercando di fare rete e sanare lacerazioni del tessuto sociale superando incomprensioni talora ataviche. Per essere stato un punto di riferimento spirituale per la comunità palermitana, caratterizzato da un impegno religioso e civile entusiasta e attivo, da un profondo legame con la Città e le differenti confessioni religiose. Per avere condiviso, divenendone protagonista importante, una visione della nostra Città quale Io sono Persona, noi siamo comunità, contro egoismi individuali e appartenenze a gruppi chiusi”.

Molto bella e molto impegnativa la motivazione che accompagna la decisione del comune di Palermo di attribuire la cittadinanza onoraria al pastore Peter Ciaccio, che per nove anni ha servito la locale comunità valdese. Ne parliamo proprio con l’interessato, da pochissimi mesi sbarcato in un’altra città di mare, Trieste. 

  • Un bell’ attestato di stima: significativo mi pare il passaggio relativo all’ «aver saputo interpretare la dimensione comunitaria della città, facendo rete per sanare relazioni sociali». 

«Sono ovviamente molto felice per queste parole che sono certo valgono per l’impegno dell’intera comunità valdese e metodista a Palermo. I numeri della nostra chiesa sono talmente piccoli, che al di là dei capisaldi legati alla predicazione e alla testimonianza, assumono efficacia solo di fronte alla capacità di fare rete, di entrare in contatto, in sinergia, in empatia con associazioni e istituzioni pubbliche e private e con le altre chiese che operano nel contesto cittadino e che condividono ideali e quindi un percorso comune. La storia valdese a Palermo è lunga 160 anni, e la nostra è quindi una presenza consolidata e riconoscibile, che in questi ultimi anni ha potuto ampliare molto il raggio d’azione grazie ai fondi derivati dall’Otto per mille: è stato possibile avviare progetti sociali, culturali, in aree spesso disagiate, che hanno contribuito a rendere ancor più chiara il senso della nostra presenza in questa splendida città abitata da donne e uomini consapevoli dei mali che la attanagliano. Una consapevolezza che è una dote rara, frutto evidentemente di ampie elaborazioni, e che consente di non rimanere paralizzati davanti al male, ma di darsi invece da fare per cercare persone con cui fare, fare per cambiare il corso delle cose. Potrei elencare decine di situazioni simili».

  • Ecco, Palermo e i suoi problemi. Il ruolo pastorale è particolare perché itinerante; con quali idee o aspettative sei giunto in Sicilia nove anni fa? E questi giudizi a priori si sono rivelati corretti?

«Credo che per il nostro ruolo sia importante iniziare un’avventura in una nuova sede pastorale senza pregiudizi, possano essere essi positivi o negativi. Una predisposizione d’animo aperta all’incontro e alla scoperta reale di un luogo e della sua comunità credo siano fondamentali. Palermo è l’esempio perfetto di quanto sto dicendo: la televisione quando se ne occupa racconta i molti problemi che la affliggono, in primis giustamente la mafia che troppe volte si sostituisce ad uno Stato assente. Ma noi sappiamo che quella narrazione è spesso anche una proiezione, una generalizzazione gioco forza sintetica, mentre noi siamo chiamati a vivere una quotidianità che è quella di tutte e tutti. Lo dobbiamo fare con una sorta di “ignoranza consapevole” che ci consente di non essere in balia di ogni refolo, ma di guardare davvero alle cose e alle persone. Credo che questo atteggiamento serva anche ai palermitani, a volte stanchi e frustrati da meccanismi incancreniti: uno sguardo nuovo, un entusiasmo dovuto alla scoperta, non possono che essere un motore positivo all’azione. Quando sono arrivato qui la situazione mi pareva disastrosa, con un’amministrazione che non si vedeva mai e quindi una generale sensazione di abbandono. Il cambio di giunta, il ritorno del sindaco Leoluca Orlando ha riacceso speranze di rivivere in qualche maniera la “primavera” della seconda metà degli anni ’80, mortificata dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non so quanto questa promessa si sia effettivamente realizzata, ma certo alcuni segnali si sono colti. Per esempio la città è diventata meta turistica, è stata capitale europea della Cultura, ha scoperto di avere molte peculiarità da valorizzare. Ciò si scontra con una mancanza di solidità economica del sistema, troppo affidato alla committenza pubblica per l’assenza di grandi realtà industriali private. Tale povertà strutturale è un enorme problema, che alimenta un’emigrazione che non ha mai cessato di esserci e che contribuisce a un saldo negativo che sta svuotando, nemmeno troppo lentamente, l’intera isola».

«Intanto diciamo che il Sindaco Orlando ha una reale e profonda conoscenza del mondo protestante, tedesco in particolare ma non solo, come ho potuto constatare nella sua veramente ampia conoscenza della Chiesa valdese. In Germania è considerato uno dei politici italiani più importanti e in questi anni ha saputo creare un vero sodalizio con il mondo culturale tedesco. La sua attenzione alle nostre realtà è quindi figlio di un affetto e di una conoscenza sinceri, e il suo è in fondo anche un esempio di quanto la cultura possa fare bene alla politica. Aspetto che tendiamo a dimenticare dato il generale degrado della nostra classe dirigente».

  • Il ruolo di pastore è per sua natura itinerante: siete chiamati a spostarvi da una comunità ad un’altra dopo un determinato numero di anni. Lo si avverte come una fortuna o come un peso?

«Come in ogni cosa vi son pregi e difetti ma credo che i primi prevalgano di molto. Andare via significa sicuramente non aver modo di proseguire quanto avviato in termini di relazioni, di impegno. Ma ciò è soltanto un possibile rammarico personale, mentre è il miglior antidoto contro ogni protagonismo o contro meccanismi incancreniti, perché è chiaro che la chiesa esisteva prima di ognuno di noi, e ha fatto cose grandiose (in città basti pensare al pastore Panascia, ma gli esempi sono davvero molti), e continuerà a esistere dopo di noi, con i doni portati dalla nuova famiglia pastorale, e via così. In ambito cattolico un prete rimane sostanzialmente sempre all’interno di una diocesi, e ciò può portare a meccanismi, anche ovviamente involontari, di creazione di sistemi di potere o comunque di relazioni difficoltose. La chiesa non appartiene al pastore, ma alla comunità e questa rotazione scongiura il rischio di veder formarsi figure ingombranti e favorisce invece la visione di medio e lungo periodo di servizio alla città che si è arricchita dei doni portati dai diversi operai passati in questo secolo e mezzo».

  • Palermo è anche città multiculturale, e capoluogo di quella Sicilia che è il primo luogo di approdo per migliaia di persone alla ricerca di un futuro di speranza. Altro ambito in cui il mondo riformato italiano ha qualcosa da dire?

«Vorrei proprio sottolineare che forse il nostro dono più grosso, o meglio il nostro talento è il fatto di saper essere cittadini di minoranza, di averlo proprio insito nel Dna per la nostra storia radicata in paese profondamente cattolico. Ciò ci consente di avere rapporti ecumenici ed interreligiosi che vanno al di là della facciata di abbracci e firme di dichiarazioni di intenti. In questo senso credo non sia stato un caso la nomina anni fa dell’evangelico Paolo Naso alla guida del Tavolo per i rapporti dell’Islam con lo Stato italiano: siamo italiani ma siamo un po’ diversi da tutti gli altri. Per questo credo che, in una situazione in cui cambia il quadro culturale e etnico, noi possiamo garantire che è possibile essere italiani anche se diversi e in ciò possiamo essere rassicurazione e garanzia sia per la maggioranza che per la minoranza. Siamo la dimostrazione che è possibile coltivare una identità particolare e al contempo essere cittadini come tutti. Dopo gli attentati in Francia a Charlie Hebdo e al Bataclan la comunità musulmana di Palermo era assai impaurita per possibili stigmatizzazioni: con l’arcidiocesi cattolica abbiamo invitato i suoi componenti a mostrarsi, a non avere timore, a scendere in strada per dire che loro non erano quell’orrore, ma erano ben altro. La nostra vicinanza testimonia proprio questo, anche se ora non ci pensiamo magari quasi più essendo oramai radicata la nostra presenza, ma credo sia un talento che dobbiamo ricordarci sempre di coltivare».