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Damasco, la crisi invisibile

In questi giorni si ricordano i dieci anni trascorsi dallo scoppio della rivoluzione tunisina del 2010, la prima tra le grandi trasformazioni politiche nel bacino del Mediterraneo che l’anno successivo toccheranno tutta l’area del Medio oriente e del Nord Africa.

Anche in Siria, nel marzo 2011, le strade della città meridionale di Darʿā si riempirono di persone che chiedevano le dimissioni del presidente siriano Bashar al-Assad, riforme politiche e un cambio di passo economico in un Paese che arrivava da anni di siccità e con un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile. Quella Primavera è però diventata un inverno lungo quasi dieci anni, trasformandosi presto in una guerra civile tra molti diversi fronti, con influenze straniere e una crisi umanitaria che molti ritengono essere la più grave del secolo.

Dall’inizio del conflitto, sono almeno 500.000 le persone uccise, mentre oltre cinque milioni e mezzo sono fuggite all’estero, in cerca di sicurezza in Libano, Turchia, Giordania, oppure risalendo i Balcani e raggiungendo l’Europa, in particolare la Germania e la Svezia.

Tuttavia, spesso ci si dimentica di chi ha perso la casa, il lavoro, spesso anche una parte della famiglia, ma è rimasto nel Paese. Nel linguaggio delle crisi sono chiamati “sfollati interni”, e rappresentano la parte più sommersa del disastro siriano. Secondo i dati ufficiali di Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono circa quattro milioni, ma si ritiene siano molti di più, almeno 6. Gran parte di queste persone si sono riversate verso Damasco, che dai tre milioni e mezzo di abitanti del 2012 è cresciuta fino a superare i dieci milioni, su una popolazione totale di 18. Nonostante le condizioni di vita di queste persone sia disastrosa, spesso gli sfollati interni sono considerati sostenitori del governo, e quindi complici, e non vittime, della crisi.

Nel novembre 2020, la cooperativa sociale Armadilla, che lavora da anni in Siria e Libano grazie anche al supporto dei fondi dell’Otto per mille valdese, ha potuto tornare nel quartiere di Hajar al Aswad, nella periferia meridionale di Damasco, dove un tempo sorgeva un centro dedicato alla fisioterapia e all’inclusione sociale per madri con figli con disabilità. Oggi quell’edificio, come tutto il resto del quartiere, non esiste più. Ma che fine hanno fatto le 500.000 persone che vivevano tra quell’area e il vicino campo palestinese di Yarmuk? Difficile credere che siano scomparsi nel nulla.

 

Nonostante le evidenti difficoltà, sono pochi i grandi donatori a essere disponibili a sostenere questa parte della popolazione, probabilmente per il timore di risultare sostenitori del governo, oppure per quella strategia della “massima pressione” che l’Occidente attua a fasi alterne nei confronti di alcuni avversari geopolitici, su tutti l’Iran, sostenitore del presidente Bashar al-Assad.

Eppure, la più grave crisi umanitaria del secolo colpisce tutti gli ultimi, indipendentemente da geografia e colore politico.

 

Foto di Diy13