istock-91567863

Non dimenticare i 250 mila bambini soldato

Sono così tante le giornate internazionali da ricordare e celebrare che, alla fine, il pericolo che si svuotino di senso è più reale di quanto immaginiamo. Oggi però uno sforzo va fatto nella direzione di cogliere l’occasione per riaccendere i riflettori su un fenomeno globale, che resta in gran parte sommerso, che riguarda i bambini e i loro diritti calpestati e negati. Oggi è la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, proclamata nel 2002 dall’Assemblea delle Nazioni Unite. Per bambino soldato si intende qualsiasi persona di età inferiore ai 18 anni che è, o che è stata reclutata o utilizzata da una forza armata o da un gruppo armato a qualsiasi titolo, inclusi bambini, ragazzi e ragazze, usati come combattenti, vedette, cuochi, facchini, spie o per scopi sessuali.

Non esistono statistiche ufficiale, solo stime: si parla di decine, forse centinaia di migliaia di bambini che in questo momento sono arruolati in gruppi armati in almeno 14 paesi del mondo.  L’Unicef ha parlato di un esercito di 250 mila minori, maschi e femmine che vengono mandati a combattere, ad uccidere, a morire, ad essere vittime e carnefici in scenari di guerra, i cui drammi resteranno per sempre impressi nella loro memoria. Coloro che infatti sopravvivono alla guerra, oltre a riportare ferite o mutilazioni, sono in gravi condizioni di salute: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell’apparato sessuale, incluso l’Aids. Vanno considerate poi le ripercussioni psicologiche dovute al fatto che i minori sono stati testimoni o hanno commesso atrocità: in genere, senso di panico e incubi continuano a perseguitare questi ragazzi anche dopo anni.

I circa 250 mila ragazzi soldato sono arruolati in annosi conflitti in corso in diversi Paesi africani, tra cui Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo, Repubblica centrafricana, Mali, Nigeria, Libia, Somalia, ma anche in Paesi asiatici (Afghanistan, Myanmar, Filippine) e in aumento nella regione del Medio Oriente (Yemen, Siria, Iraq), e poi in America Latina, in Colombia e in misura minore in altre aree del mondo. A livello giuridico arruolare minori è vietato da diverse convenzioni e trattati internazionali (come la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, lo statuto della Corte Penale Internazionale, i Principi di Parigi del 2007 o la Carta Africana sui Diritti e il Benessere del Bambino), ma livello pratico, purtroppo, sono ancora moltissime le organizzazioni nel mondo che ricorrono a manodopera infantile per svolgere compiti direttamente legati ai conflitti armati. Non esiste a livello internazionale nessuno strumento che sanzioni chi si macchia di tali crimini senza aver ratificato le sopracitate Carte di Diritti, essendo quest’ultime, espressione del diritto pattizio e pertanto vincolanti solo per i contraenti. Dietro pressione della società civile, anche per rimediare a questa grave inefficienza del diritto, è nata a fine anni ’90 un’agenzia delle Nazioni Unite, Children and Armed Conflict (https://childrenandarmedconflict.un.org), incaricata di proteggere i bambini coinvolti in conflitti armati, raccogliere informazioni e dati relativi alle violazioni perpetuate nel mondo a danno di minori, sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere la cooperazione internazionale allo scopo di migliorare lo status dei ragazzi costretti a vivere nel mezzo di un contesto bellico.

In Italia l’organizzazione umanitaria Intersos (https://www.intersos.org) ha lanciato nel mese di febbraio, in cui cade appunto la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, la campagna #stopbambinisoldato che chiede di reintegrare gli ex bambini soldato nella società e consentire loro una vita normale. Già nel 2020 Intersos ha condotto, in collaborazione con organizzazioni, attivisti e società civile, progetti di presa in carico e reintegrazione di ex bambini soldato in Somalia e nella Repubblica Centrafricana.  La piena reintegrazione di questi minori richiede un percorso lungo e complesso, ma non impossibile. Le migliaia di giovani vittime, a cui è stato negato il diritto all’infanzia, all’istruzione, alla libertà, devono avere una seconda possibilità. La comunità internazionale deve riconoscere che le future generazioni sono una risorsa da proteggere e su cui investire, non dei soggetti sacrificabili. È un impegno che deve essere rimesso tra le priorità delle agende politiche soprattutto se si pensa che uno dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile fissati dall’Onu per il 2030 prevede che gli Stati adottino misure immediate ed efficaci per garantire il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, compreso il reclutamento e l’uso di bambini soldato, ed entro il 2025 la fine del lavoro minorile in tutte le forme.