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È iniziato il processo per la morte di George Floyd

Il 25 maggio 2020 moriva a Minneapolis, in Minnesota, George Floyd, in seguito ad un violento arresto da parte della polizia locale. Il video dell’arresto, che mostrava un poliziotto inginocchiato per oltre 8 minuti sul collo dell’uomo afroamericano ammanettato, fece il giro del mondo e scatenò le più imponenti manifestazioni contro il razzismo degli ultimi anni, negli Stati Uniti e poi in molti altri paesi, dietro allo slogan “Black Lives Matter” (“le vite nere contano”).

Il 29 marzo 2021, quasi un anno dopo, è iniziato il processo contro Derek Chauvin, il poliziotto che aveva tenuto il ginocchio sul collo di Floyd. Gli altri tre agenti coinvolti, Thomas Lane, J. Alexander Kueng, e Tou Thao, saranno processati separatamente ad agosto.

Il processo contro Chauvin dovrebbe durare all’incirca un mese, al termine del quale si attende un giudizio che andrà ben al di là del singolo episodio, pur gravissimo. La morte di Floyd è infatti soltanto l’ennesima di un’infinita lista di persone afroamericane morte in seguito ad un incontro con la polizia, tanto che, la scorsa estate, ci si chiedeva come mai proprio questo episodio avesse provocato una reazione così epocale. Impossibile rispondere con certezza. Forse fu la particolare brutalità delle immagini diffuse dal video girato da una passante, che mostravano la fermezza di Chauvin nel mantenere la propria posizione, nonostante i disperati lamenti di Floyd che non riusciva a respirare (“I can’t breathe”), fino alla sua perdita di coscienza (Floyd sarebbe morto poco dopo, una volta portato in ospedale). Probabilmente ebbe un peso anche la peculiare situazione in cui il mondo ricevette queste immagini: buona parte della popolazione era costretta in casa dalla pandemia, perciò fu davvero impossibile ignorare l’episodio, come forse, in passato, era successo in casi simili.

Quali che fossero i motivi, la morte di George Floyd è diventata il simbolo della sistematica brutalità della polizia americana nei confronti della popolazione nera, e di conseguenza il processo al poliziotto accusato del suo omicidio è anche un processo all’intera giustizia statunitense. Si comincerà finalmente a condannare in modo corretto la violenza della polizia e il suo razzismo diffuso, oppure, come in passato, i responsabili se la caveranno con una pena sottodimensionata?

È ancora presto per dirlo, ma intanto i testimoni intervenuti nei primi giorni del processo hanno rapidamente messo in crisi la già scricchiolante difesa di Chauvin. Medaria Arradondo, capo della polizia di Minneapolis, ha duramente criticato il comportamento di Chauvin e dichiarato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, il poliziotto non seguì le linee guida del dipartimento riguardo alle pratiche d’arresto.

Il dottor Bradford T. Wankhede Langenfeld, uno dei medici che cercò di rianimare Floyd al suo arrivo in ospedale, ha dato forza all’ipotesi dell’asfissia come causa dell’arresto cardiaco che, secondo l’autopsia, portò alla morte di Floyd. Questo minerebbe l’obiettivo della difesa di provare che non sia stata la pressione sul collo di Floyd a causarne la morte. Gli avvocati di Chauvin ritengono infatti che il cuore di Floyd si sia fermato per un’overdose, ma anche questa linea potrebbe essere stata smentita dalla testimonianza di Courteney Ross, compagna di Floyd al momento della sua morte. Sebbene abbia confermato che l’uomo facesse frequente uso di oppiacei, la sua dichiarazione rende paradossalmente più improbabile la posizione della difesa, che indica l’effetto di droghe sia come motivo per il comportamento duro dei poliziotti (sebbene tutti i video disponibili mostrino George Floyd del tutto collaborativo con gli agenti), sia, appunto, come causa effettiva della morte: ma, se l’uso era frequente come ha dichiarato Ross, allora con ogni probabilità Floyd aveva sviluppato una certa tolleranza agli stupefacenti, tale da non rendere possibile un’overdose in base alle tracce di stupefacenti trovate nel suo sangue.

Al di là del peso che avranno queste testimonianze nella sentenza finale nei confronti di Chauvin, è senz’altro ingenuo pensare che l’esito di un singolo caso possa poi, automaticamente, reindirizzare gli Stati Uniti verso orizzonti più equi. La lotta per i diritti civili ha sempre avuto un percorso tortuoso, con passi avanti e indietro, conquiste e sconfitte spesso contemporanee. Ma allo stesso tempo è un eccesso di pessimismo pensare che questo processo non lascerà alcuna traccia. Una condanna adeguata all’operato della polizia sarebbe un importante segnale all’intero paese, il messaggio che la brutalità delle forze dell’ordine può (e deve) essere punita, ancor più se alimentata da ideologie razziste. Un’assoluzione o una pena non adeguata, invece, indicherebbero l’esatto opposto, ma l’impressione è che la società civile sia sempre meno pronta ad accogliere un risultato del genere. Se la presidenza Trump ha mostrato che il suprematismo bianco americano è vivo e vegeto, di contro ha anche evidenziato la capacità di opposizione della parte più progressista della società statunitense, proprio con le imponenti manifestazioni del movimento Black Lives Matter. I cui attivisti, non a caso, hanno presidiato l’esterno del tribunale di Minneapolis e sfilato lungo le vie della città per ribadire la propria presenza: fisica e simbolica.

 

Foto di Rossographer