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Le 400 tappe per salvare il pianeta

Mancano ormai meno di sei mesi alla COP 26, la conferenza climatica delle Nazioni Unite, ospitata quest’anno dal Regno Unito e prevista inizialmente per lo scorso novembre, ma rinviata di un anno per l’emergenza sanitaria. Spesso in passato le discussioni diplomatiche riguardo al clima sono state indirizzate da dati o rapporti presentati da enti scientifici, come ad esempio i vari documenti sviluppati dall’IPCC (un gruppo anch’esso parte delle Nazioni Unite) che hanno indicato l’importanza di limitare ad 1,5 gradi l’aumento medio globale di temperatura rispetto al periodo pre-industriale, invece della misura di 2 gradi fissata in precedenza.

Quest’anno potrebbe intervenire anche un rapporto stilato dalla IEA, la International Energy Agency (Agenzia Internazionale dell’Energia, un ente che fa capo all’OCSE), pubblicato il 18 maggio. Si tratta, come spiegato nel comunicato stampa allegato, di una road map, ossia l’indicazione del percorso da intraprendere nei prossimi decenni per ottenere, davvero, i cambiamenti necessari a limitare il riscaldamento globale e tutte le sue conseguenze. Il presidente designato della COP 26 Alok Sharma ha già accolto con favore il rapporto, definendolo in linea con la politica che ha intenzione di proporre alla conferenza.

Il documento lascia spazio sia all’ottimismo che al pessimismo. Il percorso da seguire esiste, sì, ma prevede che la «trasformazione senza precedenti del modo in cui l’energia viene prodotta» cominci subito, perché il tempo a nostra disposizione per imboccare la strada giusta sta finendo.

L’agenzia scrive che gli obiettivi attuali riguardo alla riduzione di gas serra, ora come ora, sono insufficienti. Per correggere il tiro vengono proposte ben 400 tappe fondamentali da raggiungere entro il 2050. Innanzitutto, occorre interrompere immediatamente qualsiasi investimento pubblico nei combustibili fossili. Una proposta quantomeno singolare, se, come fa notare il Financial Times, si pensa che l’agenzia stessa venne fondata per garantire l’approvvigionamento di energia (e soprattutto di petrolio) per sostenere la crescita economica globale in seguito alla crisi dei primi anni ‘70. Sembra quindi un netto cambio di rotta per l’ente, se non si considera proprio l’aspetto economico: questo nuovo documento fa correre in parallelo la transizione energetica con la creazione di lavoro e ricchezza. Si può interpretare anche in questo senso, allora, l’indicazione di aumentare di quattro volte entro il 2030 la quantità di gigawatt prodotta tramite energia eolica e solare, assieme alla necessità di migliorare ad ogni livello l’efficienza energetica per evitare sprechi.

Questi obiettivi, assieme agli altri, comporteranno delle spese notevoli, ma la IEA intercetta alcune proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, che stima una crescita del Pil globale entro il 2030 del 4% maggiore rispetto a quanto si raggiungerebbe con gli investimenti attuali. Si calcola anche la creazione di milioni di posti di lavoro nel processo.

Nel momento in cui l’analisi si avvicina al 2050, alcuni spunti diventano però soltanto ipotetici, come ammette la stessa agenzia. Le tecnologie che saranno necessarie in quel momento sono, nel 2021, soltanto dei prototipi, o necessitano comunque di una grande spinta innovativa per rendersi davvero efficaci. Per questo viene lanciato l’appello ai governi di investire anche nella ricerca, affinché il mondo della scienza abbia almeno la possibilità di sviluppare ciò di cui abbiamo bisogno per limitare o addirittura riassorbire i gas serra emessi negli ultimi secoli.

A tal proposito, un altro recente studio pone una questione diversa, ma cruciale, sul piatto della transizione energetica. Pubblicato su Nature Climate Change alla fine di aprile, analizza l’affidabilità dei calcoli dei vari paesi riguardo alla quantità di gas serra assorbita dalle foreste locali. Il paper, raccontato anche dal Washington Post, mostra una grande disparità nei metodi di calcolo, tanto che la discrepanza tra le cifre governative e quelle di indagini indipendenti differiscono di ben 5,5 miliardi di tonnellate di gas serra. Lo studio si porta dietro una chiara domanda: come possiamo davvero intraprendere politiche coraggiose in termini climatici, se non riusciamo nemmeno a calcolare quello che stiamo cercando di ridurre?

La pandemia ha fatto perdere tempo prezioso alla diplomazia climatica, perciò è inevitabile che la carne al fuoco non faccia che accumularsi in vista della conferenza internazionale di novembre. A Glasgow sarà necessario farsi carico con coraggio delle indicazioni di scienziati e di agenzie come la IEA e fare le scelte necessarie.