the-palestinian-authority-1655276_640_1

Medio Oriente, un nuovo Anno Zero?

Tre settimane fa si sono annunciati e subito prodotti i più recenti scontri tra israeliani e palestinesi, mentre alla Knesset (il parlamento israeliano) si elaboravano strategie e alleanze insieme ai parlamentari arabo-israeliani per formare il nuovo governo. Nella Gerusalemme contesa si parla di una possibile “terza Intifada”; nella «“Spianata delle moschee” in occasione dell’inizio del Ramadan la polizia israeliana per garantire la sicurezza sanitaria imposta dal Covid-19 tenta di impedire l’assembramento tra i fedeli musulmani riunitisi in preghiera», e nel frattempo giunge la notizia di «possibili sgomberi di residenti palestinesi da Gerusalemme Est». Quella scintilla, quei disordini diventano guerra.

L’organizzazione politica Hamas (antagonista di Al Fatah guidata da Abu Mazen) decide di lanciare da Gaza dei missili verso Israele. Il leader israeliano Netanyahu in una fase politica di stallo risponde bombardando Gaza. L’Europa guarda attonita. Il presidente Usa Biden, citando lo slogan «due popoli per due Stati», auspica l’immediato cessate il fuoco. I combattimenti tra il governo israeliano e Hamas dopo giorni di sofferenza e morte terminano grazie a un accordo con mediazione dell’Egitto e delle Nazioni Unite. I dati raccolti dall’Unicef segnalano che solo nella popolazione infantile sono 65 i bambini palestinesi uccisi e circa 540 i feriti: a Gaza 50.000 quelli sfollati. In Israele ci sono due i bambini uccisi e 60 i feriti. Nelle operazioni di guerra le persone più vulnerabili sono sempre le prime a pagare il prezzo delle scelte politiche, con la vita.

«I palestinesi sono impotenti, divisi fra il moderatismo del presidente Abu Mazen e il settarismo di Hamas. Non sono cittadini del “non-Stato” in cui vivono – le aree A e B della Cisgiordania dove l’Autorità palestinese (Anp) esercita la sua limitata giurisdizione e dove essi non votano da 15 anni – né votano per le istituzioni dello stato – Israele – che controlla la loro esistenza quotidiana», scrive l’economista Giorgio Gomel, membro dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) e del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace in un interessante speciale che la rivista Confronti ha deciso di dedicare alla situazione mediorientale (con le voci autorevoli e diverse fra loro, del parlamentare israeliano Mossi Raz, di Yonatan Gher, direttore esecutivo israeliano di Combatants For Peace e di Sulaiman Khatib, co-fondatore di Combatants For Peace, palestinese). Prosegue Gomel « […] se non si giunge a una ripresa delle trattative dirette fra le parti e a un accordo sui confini, gli insediamenti e lo status di Gerusalemme, la stessa nozione di “due stati per due popoli”, affermatasi come paradigma negli anni ‘80 e riconosciuta come unica soluzione possibile del conflitto dalla comunità delle nazioni, rischia di evaporare nel mondo onirico del mito».

Soluzione, quella dei due Stati per due popoli oggi molto difficile se si guarda all’attuale conformazione territoriale e dove, appunto, i Territori palestinesi sono macchie residuali e sparse all’interno di Israele. Israele, uno Stato che vive da sempre una situazione di pericolo, di allarme dettato dall’ostile situazione geopolitica che lo circonda.

La questione israelo-palestinese, oltre a essere una tragedia umana e politica (quella religiosa è marginale) è certamente una tragedia emotiva e dove le posizioni rispecchiano le molteplicità del tema. Dopo tanti anni di notizie, immagini, film, documentari, telegiornali, libri, racconti, dibattiti, incontri, ognuno e ognuna di noi si è fatta un’idea, un’opinione su questo eterno conflitto e conosce le ragioni di ogni parte in causa; alcuni dei nostri lettori, poi, hanno visitato di persona di questa Terra contesa e lacerata.

Questa ennesima ripresa del conflitto produce un profondo senso di sconforto, di sconfitta, al contempo di pudore di fronte alla morte e alle sofferenze. Sconforto che proviamo verso ogni conflitto in atto nel mondo (sono circa una ventina quelli dichiarati apertamente); forte è sempre la nostra condanna verso qualsiasi forma di violenza e azione di guerra, uso e abuso delle armi. In tutti questi anni di conflitto israelo-palestinese, se talvolta silenzio vi è stato non era né complice né distante. Il silenzio talvolta può aiutare più di tante parole. Riteniamo che questo conflitto non richieda né la nostra equi-vicinanza né la nostra equi-distanza, bensì profonda prossimità ai due popoli, colpiti da una tragedia smisurata (malgrado vi sia un’evidente sproporzione tra le parti) e a una tragedia senza fine, una tragedia fatta di danni non visibili (psicologici, emotivi, sociali, famigliari, quasi mai citati), danni che, in sovrappiù alla situazione di guerra, sono devastanti per entrambe le società coinvolte. La stessa prossimità non crediamo di doverla rivolgere ai governi e alle leadership delle parti in causa; soprattutto quando al posto del buon senso si scelgono le armi e la violenza al posto della politica e del dialogo, quando soffiano sul aria sul fuoco per alimentare odio e intolleranza.

La tregua raggiunta è una notizia che non cambia la situazione di continuo stallo, semmai evidenzia la recente devastazione prodotta. Non possiamo permetterci di spegnere i riflettori sul Medio Oriente e di rinunciare a promuovere qualsiasi azione tesa a favorire i progetti di pace e di riconciliazione.