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Speranza e guarigione per i sopravvissuti al conflitto in Sud Sudan

Negli ultimi dieci anni, migliaia di rifugiati sud sudanesi sono fuggiti nel vicino Uganda per sfuggire ai violenti conflitti in tutto il Paese. Molti, dopo aver perso parenti e proprietà, affrontano un futuro incerto, sviluppando depressione e disturbi legati al trauma.

La pandemia di Coronavirus ha aggravato le condizioni di queste persone; a seguito di una seconda ondata di COVID-19 che si è diffusa rapidamente anche negli insediamenti dei rifugiati, il governo ha annunciato a giugno un nuovo lockdown totale. Molti medici e terapisti sono sotto pressione per garantire i servizi a quanti hanno bisogno di cure di salute mentale. Josephine Nangonzi, psicologa clinica di 30 anni, che lavora con la Federazione luterana mondiale (Flm) nell’insediamento di Palorinya nella subregione del Nilo occidentale, è una di questi terapeuti, che fornisce assistenza psicologica e psicosociale ai rifugiati e alle comunità ospitate.

«Il numero di persone che cercano servizi di salute mentale è drasticamente aumentato», afferma Nangonzi. «C’è già un trauma post-bellico, e ora la paura di contrarre e morire di COVID-19 è un altro trauma». Quella di Nangonzi, che lavora con la Flm in Uganda, è una storia di resilienza, impegno, passione e servizio.

La sua giornata inizia alle 5 del mattino con la preghiera. Trascorre gran parte del suo tempo in sessioni di terapia individuale o di gruppo con i rifugiati, molti dei quali provengono da vari centri sanitari.

Sono tante le persone che vivono situazioni difficili, e incontrarle individualmente è quasi impossibile, data la limitata forza lavoro negli insediamenti.

Nonostante la paura di ammalarsi di Covid, il primo pensiero di Nangonzi è stato quello di garantire un aiuto anche psicologico ai pazienti. «Il COVID è “un luogo solitario” per chi lo ha contratto, ha determinato la separazione da famiglie e amici, la perdita delle relazioni sociali e spesso la perdita della speranza», ha raccontato Nangonzi.

Nangonzi è cresciuta nel distretto di Kyotera, un ambiente rurale nell’Uganda centrale, dove le persone con malattie mentali venivano emarginate. Questa esperienza ha alimentato il suo desiderio e la sua passione di essere parte della soluzione. «Volevo diventare un medico, ma quando non ha funzionato, un amico mi ha parlato di psicologia che comunque era uno strumento per curare le persone», ricorda Nangonzi. Prima di entrare a far parte della Flm, ha lavorato presso il Butabika National Referral Hospital, fornendo assistenza per la salute mentale.

Anche Josephine Nangonzi attende con impazienza il giorno in cui il mondo tornerà alla normalità. Spera di potersi presto ricongiungere con la sua famiglia che non vede da molto tempo. Per ora, ha una lunga fila di pazienti in attesa presso il centro sanitario Ukuni III, supportato dalla Flm, dove trascorre le sue giornate dando speranza e un futuro a coloro che ne hanno più bisogno.