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Fototessere 27: l’immagine, Parola che si vede

Proseguono gli incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma: uomini e donne che hanno dei ruoli noti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non essendo conosciute ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi.

Federico Vercellone, nato a Torino nel 1955, è filosofo e, dal 2008, professore ordinario di Estetica presso l’Università di Torino, Dipartimento di Filosofia e Scienza dell’Educazione. Prima è stato Associato (dal 1992), poi Ordinario (dal 2000) di Filosofia presso l’Università di Udine. Ha tenuto corsi nelle Università di Heidelberg, Tubinga, Jena, Parigi e Tokyo. La sua bibliografia è molto ampia, a partire dalla sua tesi di laurea Storia e tragedia nel giovane Nietzsche, e dalla successiva tesi di dottorato sull’ermeneutica nella cultura tedesca del XIX secolo: Identità dell’antico (1988). Tra le pubblicazioni più recenti Morfologie del moderno. Saggi di ermeneutica dell’immagine (il Melangolo, 2006); Oltre la bellezza (Il Mulino, 2008); Le ragioni della forma (Mimesis, 2011); Dopo la morte dell’arte (il Mulino, 2013); Il futuro dell’immagine (il Mulino, 2017); Simboli della fine (il Mulino, 2018); Glossary of Morphology (Springer, 2020; curato con S. Tedesco); L’archetipo cieco (Rosenberg & Sellier, 2021). È membro della chiesa valdese di Torino, ha fatto parte del suo Concistoro ed è presidente del Centro culturale protestante della città.

– Lei è filosofo. Vede un rapporto tra filosofia e teologia?

«Il discorso filosofico può interrogarsi su molte questioni che hanno anche una pertinenza teologica, ma viene costantemente condotto senza il presupposto di Dio, al contrario di quanto non avvenga con la teologia. In questo momento sto lavorando da un punto di vista filosofico proprio sui margini delle due discipline, occupandomi del katéchon («ciò che trattiene»), e sempre più scopro l’attualità straordinaria, dal punto di vista filosofico, del passo dell’apostolo Paolo (II Tessalonicesi 2, 5-12)».

– Ogni tanto si sente parlare di “morte della filosofia”. A me sembra un discorso assurdo. Oppure ha un senso?

«La filosofia è un discorso che ripropone di continuo la necessità di corroborare di un senso la nostra conoscenza. E il senso della scienza è alla fine indisgiungibile dalla conoscenza stessa. La scienza da sola non basta. Senza un orientamento che è dettato dall’interrogativo circa il senso del proprio procedere, essa non potrebbe organizzare neppure la più modesta delle ricerche. Guai a dimenticare la domanda originaria, pre-scientifica e molto spesso anche pre-filosofica che ci ha indotti a cercare di capire meglio qualcosa. In fondo è poi questo il compito di ogni buon insegnante che nessun manuale potrà mai surrogare: connettere la conoscenza positiva alla domanda vitale che l’ha creata. Da questo punto di vista ogni insegnamento, di ogni genere, è alla fine filosofico».

– Lei è professore ordinario di Estetica all’Università di Torino. Nel linguaggio corrente “Estetica” può significare sia “scienza o dottrina del bello” sia “scienza o dottrina dell’arte”. Quale dei due significati è da preferire?

«L’estetica oscilla tra questi due aspetti senza in fondo aver mai perso il proprio humus originario, quello settecentesco che la definisce scienza della conoscenza sensibile. Esso si è ravvivato di recente soprattutto attraverso la relazione con le neuroscienze. In questo ambito teorie come quella dei neuroni a specchio, inaugurata da Giacomo Rizzolatti e proseguita su quello estetico da Vittorio Gallese, svolgono un ruolo importante. Personalmente ritengo che oggi l’arte, in particolare quella pubblica, possa svolgere un ruolo fondamentale nel dare forma a nuovi contesti simbolici destinati a creare comunità nuove nel disgregato e difficile orizzonte della globalizzazione. Mi sembra un tema di prima importanza del quale varrebbe la pena di parlare anche all’interno delle nostre chiese, dove la sensibilità per questi temi è purtroppo ancora scarsa.

– Esiste indubbiamente una bellezza della natura (che ci offre spettacoli incantevoli) ed esiste una bellezza dell’arte. C’è rapporto tra loro, oppure no?

«Sono stati Goethe e il romanticismo tedesco a farci capire che anche quella della natura è un’arte, e che anche la natura è capace di esprimersi simbolicamente analogamente anche se non nello stesso modo di come fa l’uomo. Grandi artisti contemporanei, come per esempio Olafur Eliasson o Richard Long, non smettono di sottolineare proprio questi aspetti con opere importanti anche in una prospettiva ecologica. Si è in breve sempre più consapevoli che non esiste un fondamento biologico della vita che non sia anche simbolico, dunque culturale».

– La celebre frase di Dostoevskij «La bellezza salverà di mondo» la convince oppure no ?

«Ritengo che la bellezza possa costituire un agente potente che rivela equilibri che trascorrono dalla natura all’arte e da questa alla comunità umana nel complesso delle sue espressioni simboliche e culturali. La bellezza – come ho cercato di mostrare nel mio Oltre la bellezza – rappresenta un modello di equilibrio energetico perfetto. Le parti si integrano positivamente nel tutto e il tutto nelle parti, senza fatica o disfunzioni. Il tutto organizza le parti armonizzandole, senza opprimerle nella propria strutturazione. Nonostante questi meriti la bellezza non ha un potere salvifico o redentivo, questa è tutt’altra cosa. Del resto la “vulgata” diffusissima dell’espressione di Ippolit nell’Idiota di Dostoevskij, quella che ha prodotto la fama planetaria e un po’ disordinata di quest’espressione, decontestualizzandola, l’ha impropriamente assolutizzata: Ippolit diceva proprio l’opposto, che non ci può essere alcuna teodicea estetica e che la bellezza è contraddetta dalla disarmonia e dal dolore presenti in questo mondo e in tutto il creato».

– Lei si è molto occupato del significato e del ruolo dell’immagine nell’esperienza umana. La Bibbia è piena di immagini. Il secondo Comandamento non vieta le immagini, ma il culto delle immagini. Non si può pensare senza immaginare. Qual è, al riguardo, il suo parere?

«Sono del tutto d’accordo: non si può pensare senza immaginare, né immaginare senza pensare. Il pensiero è sempre e costitutivamente un progetto, prefigura ciò che desidera, e dunque immagina».

– Agostino definisce la Cena del Signore verbum visibile, “Parola che si vede”. Secondo lei, questa definizione può valere anche per l’immagine? Qual è il rapporto tra immagine e parola?

«L’immagine può riflettere tanto quanto la parola e sempre in una relazione inestricabile con essa. Del resto ogni segno può trasformarsi in un’immagine e moltissime immagini possono trasformarsi in segni. È una vecchissima cosa che si può osservare già nella scrittura ieratica egiziana che non contraddice quella geroglifica, semmai la integra, per venire avanti senz’ordine sino all’arte contemporanea, in particolare a certi gesti dell’arte concettuale. Si pensi per esempio a un artista come Bruce Nauman che intende le lettere dell’alfabeto come forme artistiche riempiendole di luci colorate in tubi al neon. Il transito tra i due livelli, in breve, è sempre intenso e biunivoco. Non credo tuttavia che le immagini, come già osservava Hegel, possano ancora funzionare per noi come motivi del culto. Naturalmente questo non vuole dire che non esistano immagini a loro modo religiose, simboli incantevoli e stupefacenti, artistici e non, grazie ai quali il mondo si mostra sotto un aspetto nuovo quasi inaugurale».

– Lei, se non erro, non è di famiglia valdese, ma oggi è membro della chiesa valdese. Perché questa scelta?

«Potrei dare moltissime risposte a questa domanda, ma ce n’è una semplice, radicale che precede tutte le altre che sarebbero certo più argomentate e razionali: mi sento valdese, quello era ed è il mio paesaggio interiore».