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Federazione delle chiese evangeliche in Italia: la Parola e l’Azione

A fine ottobre scade il triennio di lavoro 2018-2021 della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). In questa occasione verranno rinnovati gli organi esecutivi, presidente e Consiglio. Luca Maria Negro, presidente della Fcei dal 2015, termina dunque in questi giorni il suo secondo e ultimo mandato.

– Pastore, inevitabile partire da un bilancio di questi anni di lavoro. Iniziamo dalle cose fatte, ne scelga un paio:

«Intanto il lavoro non è opera del solo presidente, ma va condiviso, oltre ovviamente che con tutte le componenti operative della Federazione, anche con i membri del Consiglio, la cui maggioranza è in carica dal 2015. Credo siano stati anni importanti per varie ragioni. Soprattutto perché in tutto questo periodo siamo riusciti a mettere in pratica il progetto dei Corridoi umanitari, che era stato approvato alla fine del 2014 e che ha consentito di portare in Italia in sicurezza oltre duemila persone in fuga dalla guerra; un nuovo protocollo per altri mille arrivi dai campi profughi in Libano è stato siglato ad agosto. Realizzati di concerto con la Tavola valdese e la Comunità di Sant’Egidio, rappresentano un esempio ottimale di accoglienza attraverso vie legali e sicure. La speranza è che siano i governi dei Paesi europei a far propria questa pratica, consentendo a numeri considerevolmente superiori di evitare le drammatiche attraversate via mare o via terra. Negli ultimi due mesi abbiamo aperto due nuovi canali: uno con l’Afghanistan, già avviato, e uno con la Libia, che deve ancora partire, per replicare il modello dei corridoi anche con queste due nazioni martoriate.

Nel 2014 erano stati avviati altri due progetti nell’ambito delle migrazioni: l’Osservatorio di Lampedusa, i nostri occhi sul Mediterraneo, e la Casa delle culture a Scicli con la sua accoglienza e formazione di chi vi giunge. Negli ultimi anni siamo riusciti ad affiancarne ulteriori due: nella Piana di Rosarno a fianco dei lavoratori stagionali stranieri e a Bihac in Bosnia, lungo la famigerata rotta balcanica.

Oltre a questo ambito di lavoro, abbiamo cercato di mettere mano al comparto della comunicazione, nel tentativo di ottimizzare competenze e collaborazioni non solo fra i tre canali tradizionali (la trasmissione radiofonica Culto evangelico, quella televisiva Protestantesimo e l’agenzia stampa Nev), ma al contempo di collaborare con gli altri media evangelici per una proposta organica e coerente del panorama delle nostre chiese».

Veniamo al rammarico per qualcosa cui teneva e che non è riuscito a vedere in opera.

«Il rammarico principale è di non essere riusciti a avviare un organismo permanente di consultazione fra le chiese in Italia. L’obiettivo era ambizioso: creare un consiglio di chiese cristiane sul modello di quanto avviene già in moltissimi Paesi. Verificata una certa freddezza al di fuori del panorama evangelico, il tentativo è allora virato verso l’opzione di una consulta e siamo stati davvero a un passo dalla sua realizzazione, ma alla fine così non è stato. L’accento di parte dei nostri interlocutori (che in Italia vuol dire ovviamente soprattutto la Chiesa cattolica, ndr) è stato spostato sul rafforzamento della rete di consigli locali, con una dimensione geografica dunque più limitata. È un peccato perché ritengo che i tempi siano più che maturi, almeno per la formazione un gruppo di lavoro permanente».

– La Fcei si riunirà nei prossimi giorni (si veda programma qui a fianco, ndr), appena prima del 31 ottobre, anniversario della Riforma protestante, appuntamento che in questi ultimi anni, soprattutto attorno al 2017 (500 anni della Riforma) ha vissuto significative azioni di dialogo fra fedi. La spinta ecumenica oggi pare però già affievolirsi, è così?

«Abbiamo vissuto momenti importanti in questi anni, ancor prima che per il cinquecentenario della Riforma protestante: penso alla visita di papa Francesco alla Chiesa valdese nel 2015, avvenimento di storica rilevanza, e penso alla presenza a sorpresa dello stesso Francesco a Lund nel 2016. Forse ora dovremmo cercare di concretizzare un poco, capitalizzare, e non limitarci a momenti di sincera cortesia, ma rinnovare un dialogo autentico e schietto».

– Le società, e le chiese che ne fanno parte, paiono chiudersi in se stesse, preda di un atomizzazione marcata del pensiero e dell’azione. Che senso ha dunque l’azione della Federazione oggi?

«Da anni denunciamo una deriva identitaria che vediamo chiaramente manifestarsi nelle proposte politiche, ma non dobbiamo commettere errori simili, almeno nel concetto, anche all’interno delle nostre chiese. C’è una certa tendenza a dire “in tempi difficili curiamo il nostro orticello, la nostra parrocchia”, ma noi dobbiamo ricordarci sempre di fare nostro il motto di John Wesley, perché credo che davvero il mondo sia la nostra parrocchia. Allora se crediamo ciò inevitabilmente dobbiamo camminare insieme, e quindi la perdita di tensione verso l’unità del protestantesimo italiano è grave e ci fa tornare indietro anche rispetto ad altri paesi che un tempo ci prendevano a esempio. L’esempio di Abramo e Lot di una onorevole separazione dovrebbe ricordarci come va a finire: in disastro».

– Una delle narrazioni di questi ultimi anni racconta di chiese molto riconoscibili nello spazio pubblico, un po’ come grandi Ong, e al contempo di partecipazione alla vita ecclesiastica sempre più ridotta. Come uscirne, se davvero è presente tale tema?

«Il rischio di scollamento fra quelli che biblicamente dagli Atti degli Apostoli, capitolo 6, vengono definiti servizio della parola e servizio delle mense esiste sempre: la storia ci insegna che entrambe queste forme di diaconia sono essenziali, ma bisogna badare molto bene che ci sia un equilibrio. Il rischio che anche la Federazione sia considerata una sorta di “mega Ong”, grazie soprattutto al lavoro svolto da Mediterranean Hope, è ovviamente concreto; però credo che abbiamo cercato di difenderci da tale rischio potenziando tutto quello che è invece anche attività di formazione teologica, di educazione alla fede dei ragazzi, ma anche di riflessione sulla spiritualità comune, che un tempo era tema tipico della Federazione e poi in questi ultimi anni tornato oggetto di pensiero per le singole chiese. Ho lavorato per decenni nel movimento ecumenico internazionale, e una lezione che ho imparato è che se le due principali anime del movimento ecumenico, quello della testimonianza concreta e quello della formazione e dialogo teologico, si scollano va in pezzi l’edifico del mondo ecumenico. La sua vitalità sta nella capacità di fare interagire questi due aspetti, e vale secondo me per il movimento ecumenico, vale per le nostre chiese».

 

Foto di Pietro Romeo