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Dostoevskij, la fede come ricerca

Cade domani, 11 novembre (30 ottobre al tempo, e tuttora per la Chiesa ortodossa), il bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij. Impossibile ricordare compiutamente quale sia stata la sua influenza nel cristianesimo moderno. Ne parliamo con Cesare G. De Michelis, professore emerito di Letteratura russa all’Università Tor Vergata di Roma, al quale chiediamo anzitutto se Dostoevskij debba essere considerato come pensatore o essenzialmente come narratore.

«La questione è aperta da tempo: c’è un “patto non scritto”, in virtù del quale i letterati lo leggono come romanziere e i filosofi come pensatore, cercando di non litigare. In realtà le cose sono più complesse: come ha sostenuto il suo maggior studioso, Michail Bachtin, Dostoevskij è stato spesso interpretato come “scrittore psicologico”, mentre Bachtin spiega che è uno scrittore “ideologico”: al centro dei suoi libri c’è sempre il dibattito sui grandi temi teorici, da quelli legati all’attualità (nichilismo, femminismo, degrado nelle città, civiltà moderna) a quelli che da sempre occupano le pagine della letteratura e della filosofia. Ma l’importante, dice Bachtin, non è l’idea che lo scrittore mette in bocca a questo o quel personaggio; bensì la “costruzione” dei personaggi che veicolano questa o quella ideologia: da qui viene la nozione del romanzo cosiddetto “polifonico”, in cui le varie idee confliggono e diventano significative e esteticamente rilevanti proprio nel momento del loro massimo scontro. Il suo lavoro di grande scrittore – che scrive, tra l’altro, con il linguaggio dei giornali, uno stile volutamente poco raffinato – consiste nel continuo utilizzo di forme talora parodistiche, talora satiriche, per parlare dei grandi temi del mondo: l’amore, la fede, la coscienza, e così via».

– Ci sono in Dostoevskij dei concetti “teologici” direttamente illustrati dai suoi personaggi?

«La risposta non è semplice: in alcuni momenti di elevata “intensità narrativa” (e penso ad alcuni passi fondamentali di Delitto e castigo, al principe Myškin ne L’idiota, ad alcuni passi dei Demònii e dei Fratelli Karamazov e, al loro interno, al “Poema del Grande Inquisitore”) ci sono sì espressioni che esprimono una complessa concezione teologica. Tuttavia, quando Dostoevskij espone in prima persona il suo pensiero religioso, si attiene a quella che era la tradizione slavo-ortodossa cui apparteneva. Egli parla, per esempio, di “libertà del cristiano” – tema di Lutero – e anche di predestinazione: ma, quando ebbe a che fare con la presenza di movimenti protestanti in Russia, la descrive come una sciagura».

– L’interesse per noi protestanti in Italia sta non tanto nelle sue idee, ma nel modo in cui esse vengono impersonate dai protagonisti dei suoi libri?

«Per fare un esempio, sè parlato recentemente, anche in riviste russe, dei rapporti di Dostoevskij con i “settari” (e il nome di Raskòl’nikov, protagonista di Delitto e castigo viene da raskòl, che significa “scisma”, “settarismo”): e si vede la simpatia dell’autore per quei settari che rincorrevano una loro fede personale e totale fuori dai limiti e dalle strutture della chiesa. Sonja, che alla fine di Delitto e castigo dice parole molto intense, alla domanda se le sue idee le vengano dal frequentare la chiesa, aveva risposto che non ci andava quasi mai… Se Dostoevskij si trova a dover esprimere che cosa sia il Dio della Russia, sta totalmente dentro alle categoria della Chiesa ortodossa russa, mentre quando descrive i personaggi “settari” sembra che simpatizzi per loro. La sua idea di fede sembra quindi essere quella di una ricerca personale e non legata a una particolare confessione».

– Alcune celebri frasi passate nell’uso comune rischiano di far appiattire le letture che facciamo di Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”; “se Dio non esiste tutto è permesso”…

«Vale per lui ciò che vale anche per altri grandi scrittori: queste locuzioni hanno certo il fascino di suscitare in chi le legge una vastità di pensieri, che forse non sono esattamente quelli che le avevano dettate. Tuttavia bisogna vedere come queste grandi metafore nascano da modelli abbastanza ben ricostruibili dal punto di vista filologico. “Se Dio non esiste, tutto è permesso” è una parodia della frase di Voltaire: “Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo”. Invece, “dietro” all’idea di una bellezza salvifica c’è l’idea della philokalìa, cioè di quella raccolta di testi di Padri della chiesa orientale che venne diffusa in russo a fine ‘700. Al di là della capacità evocativa ci sono quindi ragioni e riferimenti ben precisi, che fanno parte di una tradizione molto specifica».

– Lei è stato autore, nel 2004, di una traduzione di Delitto e castigo che muove da una lettura filologica del titolo: di che cosa si tratta?

«La prima volta che si sentì parlare in Italia di questo libro, nel 1869, si parlava di “Colpa ed espiazione”. Poi la cultura francese lanciò la letteratura russa su scala internazionale, e i francesi tradussero Crime et châtiment. Ora, la parola russa impiegata significa sia “castigo” sia “pena”, e proprio “pena” sarebbe la traduzione corretta, perché l’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene ebbe un grande rilievo nel dibattito russo del tempo. Il riferimento di Dostoevskij a essa era esplicito e voluto, ma purtroppo il suo romanzo venne tradotto dal francese, e châtiment non si può rendere altrimenti che con “castigo”».

– La sua traduzione peraltro è l’unica a portare in nota la grande quantità di riferimenti biblici di cui è intessuto il romanzo, ma questo non è l’unico legame tra Dostoevskij e la Bibbia…

«Dostoevskij, coinvolto in un circolo del “socialismo umanitario”, venne condannato a un lungo periodo di lavori forzati, poi di servizio militare e al confino in Siberia. Quando tornò, si diede alla composizione dei suoi capolavori, anche se i romanzi della prima stagione, Povera gente, Il sosia sono tutt’altro che trascurabili. Ora Dostoevskij dalla Siberia portò con sé un volume dei Vangeli in russo, che gli era stato regalato da una delle tante donne che avevano seguito al confino i condannati della rivolta del 1825. Ma all’epoca la Chiesa ortodossa russa ammetteva la lettura del Vangelo solo in “slavo ecclesiastico”, che fu la prima lingua di diffusione del cristianesimo in un’area che andava dalla Bulgaria alla Serbia, alla Russia. A partire dagli anni ‘20 dell’800 la Società Biblica, con il concorso di metodisti, luterani, ecc. e anche di personalità della Chiesa ortodossa, promosse l’opera di diffusione del testo evangelico in russo. La Società Biblica russa fu poi sciolta perché ritenuta troppo “occidentale” e sospettata di collusione con la massoneria. Ma Dostoevskij, per tutta la vita, lesse il Vangelo in questa edizione (il volume è ancora conservato nella sua casa-museo). Tanto ritenne importante poter leggere il testo nella lingua “di tutti i giorni”, che l’inizio del riscatto di Raskol’nikov parte dalla lettura del Vangelo donаto dalla sorella dell’usuraia che egli aveva ucciso: dunque, in qualche modo, dalla vittima del (duplice) delitto da lui commesso parte la sua redenzione».

– Continueremo a leggere Dostoevskij?

«Sì, con l’avvertenza che in realtà abbiamo già assistito al “ritorno” di Dostoevskij. In epoca sovietica ha predominato a lungo l’impostazione di Maksim Gor’kij, che privilegiava il filone letterario che partiva da Tolstoj, il romanzo storico, il realismo, emarginando tanto Gogol’ quanto Dostoevskij. La sua riscoperta inizia negli anni ‘60 e l’edizione critica che oggi “fa testo” risale agli anni ‘90 del XX secolo».