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Le tante passioni di Marco Mathieu

Era ormai qualche giorno che si stava davanti alla porta del reparto di rianimazione dove Marco era ricoverato dopo una stupida caduta dalla moto, forse colto da un malore improvviso, attenti e concentrati alle notizie altalenanti che arrivano dal mondo della luce bianca e soffusa.

Oltre ai genitori arrivati insieme alla sorella in fretta e furia da Torino, c’erano molti amici, compagni di lavoro e spesso persone che passavano a sentire, per cercare di essere rassicurati sulla situazione di grave instabilità della salute di Marco. Tutti sempre con un atteggiamento affettuoso e positivo, sperando di riaverlo tra noi al più presto, per risentire la sua bella e schietta risata che si era spenta di colpo.

Ci immaginavamo a bere  una birra tutti insieme  facendoci raccontare ancora una volta come era andata, insomma nonostante un pessimismo non nascosto del primario del reparto, in questo happening di amicizia e affetto nei confronti di Marco a cui partecipavano tra gli altri i suoi vicini di casa, la sua nutrizionista, e tutta la formazione della nazionale scrittori con cui si era allenato il giorno prima dell’incidente all’ora di pranzo in una giornata clamorosamente calda di luglio, su un bel campetto nella periferia romana, eravamo una moltitudine in collegamento continuo, convinti che se come aveva detto il primario ci voleva un miracolo per riportare Marco fuori dal coma in cui si era inabissato: il miracolo ci sarebbe stato.

Confidavamo nel fatto che Marco aveva un’energia superiore alla media, che gli permetteva di fare moltissime cose insieme e tutte con una passione smisurata. Era eccessivo in tutto, esuberante oltre il limite. Sprigionava energia esplosiva quando era il musicista o meglio il bassista dei Negazione, e sul palco urlava rabbia e disperazione facendo dei salti da giocatore di pallacanestro, quando era il manager degli Africa Unite e girava con loro il mondo per portare il verbo del reggae, l’inviato speciale in paesi lontani, il documentarista, il giornalista sportivo e persino l’ultras del Toro, squadra amata al di là di ogni ragione.

Ai miracoli Marco ci credeva e noi insieme a lui. Aspettavamo e speravamo. Aveva da poco organizzato a Roma un torneo di calcio con gli scrittori israeliani, e ne stava preparando un altro in Palestina con i bambini palestinesi e israeliani con il chiaro intento di avere sulle maglie di tutti i partecipanti la parola Pace, voleva riorganizzare un ultimo tour dei Negazione e farne un film, continuava a pensare a scrivere un altro libro.

Era un ultras del Toro anche nei momenti peggiori, e si occupava di chi il calcio lo giocava nei campi abbandonati nelle periferie, aveva intervistato Sinisa Mihajlović (in quel momento allenatore del Torino), e ne aveva riportato le parole di un uomo che raccontava la guerra fratricida nel ex-Jugoslavia, che parlava di parenti e amici morti in quella “battaglia bastarda” con le bandiere strappate ai vicini e con i confini segnati dal sangue nei cortili di casa.  Aveva raccontato, insieme a me, la battaglia per la democrazia di Socrates, il capitano del Brasile che in campo e nella sua squadra era esempio per le battaglie  contro il regime dei generali, alzando il pugno chiuso dopo ogni gol della nazionale o del suo Corinthias, pervaso sempre da un misticismo antico e ancestrale che arrivava dalle immense foreste amazzoniche.

Si professava anarchico Marco ma la sua militanza politica era di tipo pastorale, era un pastore di anime ribelli e oppresse, era voce di mondi che avevano radici lontane, e arrivavano da lontano le sue di origini e della sua famiglia: le valli valdesi. Era fiero delle battaglie del suo popolo contro l’oppressione e l’oscurantismo. E poi Marco pregava ed era officiante di continue cerimonie casalinghe, insieme ai suoi amici buddisti.

Davanti a quella vetrata opaca dove si sono accavallate per giorni speranze e abbracci, amicizie, discorsi politici e letture di articoli di giornali, e forse storie d’amore, un giorno arrivò una giovane donna dallo sguardo sereno a sedersi sulle scomode panche di metallo distante da tutti. Un po’ sfacciatamente mi ero seduto accanto a lei e le avevo chiesto se aveva qualche parente ricoverato in quel triste reparto, mi rispose che appena aveva saputo che Marco era stato ricoverato, si era precipitata per pregare insieme a lui. Qualche anno prima era stata ricoverata per un tumore e quando aveva chiamato Marco per dirglielo, lui si era presentato in ospedale e le era stato vicino parlando e rassicurandola per giorni fin quando non fu operata e dimessa. Poi sparì e non l’aveva più visto. 

Dopo quattro anni di coma,  Marco non c’è più. E noi tutti siamo più soli.