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Aprire gli occhi in un attimo di grazia

Quando i tre arrivarono al villaggio (Luca 24, 13-35), per due di loro era casa. Il terzo invece fece per continuare il cammino ma lo trattennero, non erano pronti a lasciarlo andare. Prepararono in fretta qualcosa da mangiare, si era fatta sera, ognuno sembrava assorto nei suoi pensieri. Un turbinio di eventi… I due non erano più certi di nulla. Avevano visto morire il loro amico. Ne erano rimasti sconvolti. Si erano chiesti perché tanto odio, perché tanto accanimento, non ne erano venuti a capo… Poi un uomo li aveva affiancati e camminando con loro aveva letto gli eventi in maniera completamente diversa. Opposta. Entrare nella gloria, aveva detto che quella sofferenza non era stata l’ultima parola ma era stata necessaria perché Egli entrasse nella gloria. Insomma, era vero quello che le donne avevano detto: lui era vivo! Non erano più certi di nulla, solo che quella visione delle cose così diversa, inattesa, aveva come riscaldato loro il cuore, aperto come uno spiraglio di luce nell’oscurità del presente…

A tavola poi avevano visto lo straniero prendere la parola, benedire il pane, spezzarlo e offrirlo.

Fu un attimo e lo avevano riconosciuto…

Che cosa c’è in questo racconto che ce lo fa amare così tanto? Cerco di rispondere ma non so. Forse il sapere che Gesù possa affiancarsi anche a noi e che, discreto e silenzioso, possa ascoltarci mentre dibattiamo fra noi, cercando di farci una ragione di quanto accade sotto i nostri occhi. Il pensare che ascolti le parole del nostro smarrimento. Ogni volta che le nostre aspettative sono frustrate, ogni volta che l’odio sembra prevalere – sì, perché tanto odio? – ogni volta che ce ne torniamo a casa con la sensazione che il senso della vita nostra e degli altri ci sfugga completamente, ecco, amiamo pensare che proprio in quei momenti Gesù sia lì al nostro fianco e sia egli stesso a suggerirci una diversa chiave di lettura da quelle usate da noi fino a quel momento. Questo accade a volte. Accade che una parola udita o un’intuizione che si fa strada nelle nebbie del nostro argomentare possa offrire una luce diversa e riaprire situazioni che apparivano chiuse fino a poco prima. Accade quando siamo soli ma accade ancora di più quando ad arrovellarci sul perché delle cose che accadono – perché tanto odio? – siamo in due o in tre. E quando, da credenti increduli e disillusi pronti a girare le spalle e a tornarcene a casa nostra, ritroviamo invece la direzione della comunità e l’impazienza di tornare a esserlo insieme agli altri.

Il Covid prima e ancor di più la guerra ora ci hanno prima lasciati senza parole, poi l’aria si è saturata di parole, molte delle quali ci hanno confuse e resi ancora più disperati. Ho esitato tremante a scrivere questa parola, ma come evitarla? Disperati sì perché ormai disperiamo che come umanità possiamo mai imparare dagli errori e dagli orrori che hanno lasciato lunghissime scie di sangue sulla terra e dolore che il tempo non è mai riuscito ad elaborare del tutto. Disperati sì, perché in un tempo in cui la chiamata storica era a prenderci urgentemente cura della terra, cercando di riparare qualcosa dello scempio compiuto, eccoci a dover assistere a distruzioni e a fosse comuni, al prevalere del linguaggio dell’odio. Altro che cura per l’acqua, l’aria, il mare, altro che la scelta di energia pulita… ora si parla di nuovo di carbone e di nucleare mentre in Ucraina le bombe avvelenano tutto e tutti come per impedire al sole di tornare a sorgere.

Non sappiamo questa furia quando finirà, né sappiamo se i timori di possibili escalation resteranno solo timori. Mi chiedo allora: che cosa può quel racconto dire proprio a noi oggi? Che forza ha per noi? 

La forza di questo racconto si concentra secondo me nel momento in cui Gesù benedice la comunione di tavola. I gesti semplici, quotidiani del prendersi cura dello sconosciuto accolto in casa, del condividere il pane e una parola benedicente, il porre il tutto sotto la grazia di Dio che provvede vita, questo è il momento in cui gli occhi si aprono, il tempo incontra l’eternità, Dio e l’umano si riconoscono, la morte è sconfitta e il futuro ridiventa possibile.

Da dove ricominciare a sperare allora? Forse dalle case che si stanno aprendo dovunque nel mondo, dalle tavole apparecchiate per gli stanchi e le stanche bisognose di pane e umanità, dalle chiese che spostano le panche e riempiono le sale di brandine, da coloro che si fanno famiglia per mamme con figli e figlie in fuga, ma anche da quelle donne che attraversano le frontiere al contrario e ritornano a casa per aiutare i propri anziani e i propri vicini rimasti soli per spezzare con loro il pane razionato e condividere la poca acqua rimasta.

In quelle tavole condivise ritroviamo il senso di umanità che la guerra fa smarrire. 

Aprire gli occhi è questione di un attimo, un attimo di grazia in cui riconosciamo nell’altro Gesù vivo accanto a noi. Un attimo solo che ci svela che l’odio non vince. Ed è Pasqua.