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Nebrodi: giustizia è fatta

«Come può il presidente del più grande parco naturale siciliano vivere da più di un anno sotto scorta? Ci sembrava assurdo. Questo fu il motivo che ci portò dritti da Giuseppe Antoci, esattamente un anno fa, era maggio 2015», scrivevano (era il 2016), Diego Gandolfo e Alessandro di Nunzio, i finalisti del Premio «Roberto Morrione» presentando una bella intervista (disponibile qui) a Giuseppe Antoci

Migliaia gli ettari di terra allora erano in mano alle famiglie mafiose, milioni di euro fondi «rubati» all’Ue; e poi proiettili e lettere minatorie erano i codici della mafia rurale «spietata e onnipresente». 

«Il parco era cosa loro», Antoci aprì da allora gli occhi su un mondo sconosciuto. Un mondo che i giornalisti Gandolfo e di Nunzio scoperchiarono con la prima inchiesta sul tema, raccontandone intrecci, sfaccettature e facendo emergere un mondo sommerso con «Fondi rubati all’agricoltura» (insieme alla tutor Sabrina Giannini), l’inchiesta che vinse nel 2015 l’edizione del Premio Morrione. 

«Da quel momento in poi cambiò tutto – ricordano gli autori -. La nostra inchiesta ebbe una svolta: dovevamo indagare sulla mafia dei Nebrodi. Una mafia di cui nessuno parlava. Una mafia, di cui i media si sarebbero accorti ben prima se fosse nato quel pool investigativo già allora immaginato da Roberto Morrione».

Nel 2016 (dopo l’attentato) era giunta la solidarietà ad Antoci anche dal circuito delle chiese valdesi e metodiste siciliane. Nell’occasione, le chiese valdesi e metodiste (che come tutte le chiese protestanti pongono la Bibbia al centro della propria riflessione ed azione) «hanno inteso ribadire che il testo biblico fa della terra un dono di Dio, temporaneamente affidato ai singoli con il compito di curarlo nel rispetto dell’ambiente e dell’interesse comune (cfr. Levitico 25), cosicché l’atteggiamento di chi si appropria con la forza o con la frode della terra per farne mera occasione di acquisizione illecita di fondi europei è da considerarsi in grave contrasto, non solo con la legge dello Stato e dell’Ue, ma anzitutto con il testo sacro».

Ieri è arrivata la notizia tanto attesa e commentata da Antoci che, con occhi lucidi, ha ribadito «la vittoria della verità e della giustizia» dedicandola alle sue figlie, «Vorrei trasmettere alle mie figlie il senso del dovere di una persona che ha passato ciò che ha passato». 

Il Maxi processo dei Nebrodi, ha prodotto condanne per circa sei secoli di carcere e il sequestro di beni per circa 4 milioni di euro; tutto ciò grazie all’operazione avviata il 15 gennaio 2020 denominata appunto «Nebrodi» e che portò a 94 arresti ed al sequestro di 151 aziende agricole per mafia; una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e certamente la più imponente sul versante dei Fondi Europei dell’Agricoltura in mano alle mafie e mai eseguita in Italia e all’Estero. 

Un meccanismo perverso interrotto proprio dal «Protocollo Antoci» recepito nei tre cardini del Nuovo Codice Antimafia votato in Parlamento il 27 settembre 2015. 

«Per tutto ciò che in questi anni è avvenuto – scrive oggi il sito Articolo 21. Org – l’ex Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci (oggi Presidente Onorario della Fondazione Caponnetto) ha rischiato la vita nell’attentato del 2016 dal quale si è salvato grazie all’auto blindata e al violento conflitto a fuoco ingaggiato dai poliziotti della sua scorta». Antoci, come si sa, vive sotto scorta.

«Un momento importante – ha commentato l’ex presidente del Parco dei Nebrodi – perché questo Paese ha bisogno di risposte. Da questa esperienza esce la risposta di un territorio che ha fatto il proprio dovere, abbiamo fatto semplicemente quello che andava fatto e che da tanti anni non veniva fatto. Abbiamo superato il silenzio e tentato di far capire che i fondi europei per l’agricoltura dovevano andare alle persone per bene e non ai mafiosi, ai delinquenti, ai capimafia».

Tra i primi a gioire di questa sentenza proprio il presidente di Articolo 21 liberi di… e giornalista anti mafia Paolo Borrometi(anche lui sotto scorta). «Lo volevano ammazzare come un cane, hanno tentato di delegittimarlo, infangarlo, insomma distruggerne l’immagine. Poi – afferma Borrometi – è arrivata la Giustizia: oltre 600 anni di carcere per 91 imputati, colpiti grazie al Protocollo che porta il suo nome. Vederlo piangere ieri sera, dopo la lettura della sentenza, è stato l’ennesimo colpo al cuore, solo l’ultima dimostrazione del suo autentico coraggio. Quando pensiamo a cosa ognuno di noi possa fare per il proprio Paese, dovremmo pensare a Giuseppe Antoci, alla sua famiglia, ai suoi sogni violati con la violenza. Oggi, però, è il giorno della soddisfazione, non della recriminazione. Lui ci ha messo la faccia, gli uomini della sua scorta la vita per difenderlo, qualcuno invece – una volta di più – ha perso. Antoci, il volto bello di questo Paese!»

La sentenza del tribunale di Patti è storica «Ed è un colpo durissimo alla mafia. Colpita dove le fa più male: negli affari. Sento di dire grazie a magistrati e inquirenti – ha scritto ieri con un post sul web Vittorio Di Trapani, già segretario dell’UsigRai –, ma un grazie particolare sento di dirlo a Giuseppe Antoci. Se oggi lo Stato ha vinto è grazie al suo servizio reso come Presidente del Parco dei Nebrodi. E grazie al Protocollo che porta il suo nome, che oggi è legge. Sono orgoglioso di averlo avuto come ospite durante l’ultimo Congresso che ho fatto come Segretario Usigrai. Esattamente un anno fa. Ora il mio pensiero va alla sua famiglia: il suo sostegno, la sua forza in questi anni di lotta. Di sofferenze. E di paure. Penso che più di qualcuno oggi dovrebbe porgere le proprie scuse ad Antoci e alla sua famiglia».