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Palestina-Israele, il progetto di accompagnamento ecumenico

«Al di là della politica, delle rivendicazioni, delle colpe e delle ragioni, rimane la cattiveria gratuita, questa violenza dei piccoli grandi gesti quotidiani, violenza che veramente non si riesce a comprendere, a giustificare. La gente qualunque non è nemmeno interessata alla politica, ha il pensiero di mettere insieme il pranzo con la cena, e tutta questo male gratuito colpisce come un pugno. Dov’è l’umanità?».

Simone Scotta, per molti anni nello staff del progetto Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, oggi lavora a Gerusalemme Est nel progetto Eappi (Programma di accompagnamento ecumenico in Palestina e Israele) del Consiglio ecumenico delle chiese. «Si tratta di reclutare e coordinare team di volontari provenienti da tutto il mondo che per tre mesi rimangono qui nei territori in qualità di osservatori e accompagnatori nel quotidiano di cittadini, adulti e bambini, alle prese con continui soprusi».

Il progetto nasce nel 2002 in risposta alle richieste dei leader delle chiese cristiane di Gerusalemme di offrire protezione tramite una presenza non violenta e al contempo monitorare le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale, senza dimenticare di supportare le attività degli attivisti per la pace fra israeliani e palestinesi.

«Accompagniamo scolaresche nel loro percorso verso le scuole, perché spesso per giungervi devono attraversare check-point o posti di blocco, e facciamo in modo di evitare tensioni, ma a volte lo sconforto sembra prevalere. L’altro giorno sotto la pioggia battente a Hebron, le forze di polizia israeliane hanno ostentatamente dilatato i tempi di attesi dei bambini delle scuole elementari, che aspettavano sotto il diluvio un gesto di magnanimità, l’apertura di un cancello per permettere loro di proseguire. Cosa aggiunge tutto ciò alle tensioni in corso? Perché prendersela con loro?».

Eppure questa non è eccezione, ma prassi quotidiana per la popolazione della CisGiordania. «Accompagniamo pastori e agricoltori che hanno visto i loro terreni spezzettati, divisi a causa dei sempre più massicci e invasivi insediamenti dei coloni, per lo più ultraortodossi, e dei muri costruiti un po’ ovunque. Alcuni proprietari impiegano ore a giungere nei loro campi a causa degli ostacoli da superare, altri hanno permessi limitatissimi nel corso dell’anno per accedervi. Vengono sottratte terre, risorse fondamentali come l’acqua, per isolare sempre più i palestinesi, costringerli ad andarsene».

Parlare oggi di soluzione a due Stati quando una delle parti in causa è racchiusa in sorta di riserve indiane, senza i più elementari diritti, appare oggi un’utopia. Eppure non era così ancora pochi anni fa. «Sono stato qui a lavorare già nel 2013-2014 in un piccolo villaggio al Nord, in Galilea, in un centro che riuniva bambini ebrei e arabi, tutti insieme in uno spazio bellissimo nel verde, con moltissime attività per coinvolgerli e crescere insieme. Vero che eravamo lontani dalle zone calde dei conflitti, ma davvero sembrava di veder sbocciare piccole oasi di dialogo, semi di speranza per il futuro. A Gerusalemme oggi quel contesto appare lontanissimo fra tensioni quotidiane, presenza invasiva del tema religioso che si mischia alla politica e radicalizza le posizioni, rendendo il dialogo assai difficile».

Il recente voto del 1° novembre ha visto la forte ascesa del Partito sionista religioso, di estrema destra, che promette nuovi territori da occupare per i coloni. «L’affluenza degli arabi al voto è stata bassa perché la gente è stufa di una classe politica che non risponde alle loro necessità. Nella campagna elettorale il tema della sicurezza ha avuto un ruolo marginale: la priorità per gli elettori è stato il costo della vita che qui, specialmente a Est, è davvero insostenibile; a fronte poi di servizi quasi inesistenti, a differenza della parte Ovest della città». Due velocità sotto gli occhi di tutte e tutti.

«2 milioni di palestinesi vivono a Gaza sotto assedio, 5 milioni in Palestina con ostacoli amministrativi e di vita quotidiana di ogni sorta; qualche soluzione va trovata per uscire da questa logica di violenza e morte, da entrambe le parti. Per avere pace però ci vuole giustizia». 

«Con i volontari compiamo alcune volte tour guidati da un ragazzo ebreo ortodosso che ci aiuta a conoscere alcuni progetti israeliani, e tante delle questioni che sentiamo da lui sono problemi comuni anche ai palestinesi. Mi chiedo se ci sarà un giorno una specie di rappresentanza di queste istanze comuni». La svolta potrebbe partire da questa presa di coscienza.

 

Foto di http://wilrob.org/