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Riportare al centro l’umano

«Ho vissuto l’esperienza nell’Unhcr come una funambola, alla ricerca continua di un equilibrio». Alessandra Morelli, trent’anni di lavoro nell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, relatrice nella tavola rotonda di apertura dell’Assise della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, ha partecipato anche al secondo giorno di lavori, nel gruppo sul tema della sua relazione, “Globalizzazione e pace”.

Terziaria francescana, già delegata per l’Europa dell’Unhcr, ci ha raccontato di essere rientrata in Italia a settembre dello scorso anno, dopo una vita in giro per il mondo, con la necessità di “reinventarsi”. Ha quindi avviato un progetto pilota, che sarà lanciato a Capodanno con un ritiro di tre giorni, per giovani e famiglie, dove proporre uno spazio di riflessione sull’”arte dell’umano”. Che cosa intende? «Parlo di un approccio che parte dai valori essenziali, per difendere la dignità di ogni essere umano. Se ogni persona, ogni creatura, tutto ciò che ci circonda è sacro e bello agli occhi di Dio, la nostra responsabilità è quella di custodirci, custodire ogni cosa».

– La sua riflessione è maturata negli anni di lavoro con l’Unhcr. Ce ne può parlare? 

«Sono stati trent’anni di luoghi in cui ho solo visto la disumanizzazione dell’umano da parte dell’umano. Ho vissuto le guerre nella loro fisicità, da dentro, incontrando gli occhi smarriti delle vittime in Africa, Asia, Europa. Mi sono trovata davanti a centinaia di persone che ti vengono incontro perché tu rappresenti la speranza e la protezione, quando invece non hai nient’altro che le tue mani e la tua presenza. Il mio lavoro è stato di creare lo spazio per la protezione. Spiegavo ai miei colleghi che noi siamo generatori di spazi, e in questi spazi, che dobbiamo custodire, dobbiamo re-iniettare l’umano, tutto quello che hanno perso, la speranza. Ho incontrato sfollati e rifugiati accomunati dalla stessa realtà di sradicamento: pensiamo alla riflessione sul “non luogo” di Bauman: senza uno spazio, la persona non vive». 

– Come non essere sopraffatti da tanto male?

«La fede mi ha sostenuta molto, e il mio lavoro mi ha dato l’opportunità, nella mia piccolezza, di riconoscermi in una frase del Vangelo e di viverla: “avevo fame e mi avete dato da mangiare”. Sono sopravvissuta a un attacco terroristico in Somalia nel 2014, di cui porto ancora le conseguenze fisiche, l’ho raccontato nel mio libro (Mani che proteggono, appena uscito per Ancora, nda), dove cito due frasi molto belle del Talmud. Una ricorda che quando salvi una vita salvi l’umanità, e un’altra che ogni giorno nel mondo si alzano 72 giusti, che portano sulle loro spalle il dolore del mondo. Nessuno sa chi sono, nemmeno loro, ma sapere che ci sono è una grande fonte di coraggio».

Dopo tanti anni di gestione del conflitto, in Afghanistan, Somalia, Kenya, Sri Lanka, Kossovo, Albania, Yemen, ha vissuto un periodo di ritiro in un eremo: «Ho cercato di capire a che cosa potesse servire la mia esperienza, da qui è nato il progetto “Educare all’umano”: la solidarietà, l’ascolto, l’accompagnamento, l’inclusione, il fare spazio agli altri, la non autoreferenzialità; in una parola, la pratica di cura. Se ci pensiamo, tutto questo nasce dalla riflessione filosofica antica, da Platone ad Aristotele… la cura come capacità di far nascere il bello nell’altro. La cura è ontologica, noi oggi siamo “bisognosi di bisognosità”: senza relazioni siamo finiti».

– Il suo impegno è ora presentare in vari contesti, anche nelle Università, questa riflessione. Come ha vissuto la partecipazione all’Assise?

«Per me è meraviglioso essere qua, intanto per ampliare il discorso di fede, vedendo come la Federazione e le realtà che ne fanno parte, “respirano” determinate tematiche, rendendomi conto che quando si parla dell’umano siamo tutti sotto lo stesso “mantello”, quello di Gesù, Colui che ha parlato di prossimità, che ci ha fatti passare da “persone” a “prossimo”.

Qui mi trovo a casa, perché si osa discutere di temi urgenti, come la globalizzazione, cercando di riportarla a una prospettiva fondata sull’umano, non come è stata vista finora, solo da un punto di vista finanziario, economico, di potere. Solo i discepoli di Gesù possono fare questo sforzo, questo è l’impegno emerso nella discussione del mio gruppo. Un altro tema è stato la pace, innanzitutto come disamo interiore: riappropriarci di un linguaggio nonviolento, osare parlare di pacifismo, perché oggi c’è davvero un vuoto. Abbiamo barattato la parola (e la Parola meditata) con le sanzioni e le armi, ma non possono essere loro a parlare. Ritengo urgente capire come la questione dell’umano e della solidarietà possa diventare un progetto politico, affinché la politica sia una politica di cura, che riporti al centro i marginalizzati. Senza questo movimento, si va verso il deserto».

 

Foto da Anmil.it