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Trieste è bella di notte

La sala del Teatro Miela domenica 22 gennaio era gremita per la prima di Trieste è bella di notte, di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre, nella cornice del 34° Trieste Film Festival. In 75 minuti l’opera documenta le vicende, le sensazioni e le riflessioni dei migranti della cosiddetta rotta balcanica, sull’ultimo tratto che da Bihać (Bosnia) porta al Friuli-Venezia Giulia.

Il flusso proviene dall’Asia, attraverso la Grecia o la Turchia risale la penisola balcanica fino al limes, ovvero la frontiera tra Bosnia e Croazia, confine dell’Unione Europea. Poche centinaia di chilometri percorsi a piedi in una ventina di giorni, anzi, di notti: questo è il game, ovvero il tentativo di superare attraversare la Croazia e la Slovenia per arrivare in Italia.

«A un certo punto ho visto le luci di una città risplendere sul mare. È la cosa più bella che ho visto in vita mia. Non la dimenticherò mai». È uno dei migranti a dare inconsapevolmente il titolo al film. Alcuni di loro hanno già una trentina d’anni e hanno lasciato la propria terra quando erano poco più che ragazzini. Anche se il film è una chiara ed esplicita denuncia della pratica illegale dei respingimenti informali, che prevedono la consegna alla polizia slovena senza permettere di fare domanda di protezione internazionale, al centro ci sono sempre “loro”: i migranti.

Questo è forse il principale pregio del film. Certo, c’è la reazione delle istituzioni italiane, sia di chi vuole liberarsi in maniera “informale” dei profughi sia della magistrata che ha ordinato al Ministero di cessare questa pratica, perché illegale, e di permettere loro di chiedere asilo. Poi, appena accennate sono la reazione di chi accoglie in Italia e la prassi in Croazia (dove le istituzioni si servono di bande di teppisti armati di cani e bastoni, che seviziano i migranti affinché “passi loro la voglia” di riprovarci), ma i protagonisti, chi fa la storia, sono le persone che guardano avanti, al futuro, con speranza. E, a ben pensarci, non potrebbe essere altrimenti.

Pregevole il montaggio video (qui è veramente il caso di menzionare la montatrice Chiara Russo), che alle immagini riprese dai registi alterna i video girati dai migranti col telefonino, dove traspare il sogno: le pose dai boy-band, la festa di un capodanno passato in Bosnia, e le lunghe carovane che tentano il game. Colpiva in particolare un video che mostrava una fila di persone in processione sulla neve, una scena che ricordava La febbre dell’oro di Chaplin, film che di cui, forse, chi ha fatto quel video non ha neanche mai sentito parlare.

In questo il film mostra il suo aspetto più interessante: l’idea di girare un film sulla rotta balcanica che si incontra con la realtà che quel film i migranti lo hanno già fatto, anzi lo fanno anche in questo momento. È un incontro che dà ordine alla frammentazione, alla tiktokizzazione delle esperienze, permettendo di coglierne il senso più profondo.

Prodotto da ZaLab e da Vulcano, il film non si sarebbe potuto fare senza il lavoro dell’aiuto regista Ismail Swati, mediatore culturale per la CSD-Diaconia valdese a Trieste, che alla termine della proiezione ha suonato un rubab (una sorta di liuto afgano), introducendo così l’ingresso sul palco dei protagonisti del film, per l’ultima emozione della prima di questa importante opera.