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Credit Suisse: «Il protestantesimo ha un rapporto ambivalente con il capitalismo»

Intervistata sulla crisi della banca “Credit Suisse”, la presidente della Chiesa evangelica riformata della Svizzera (Cers), la pastora Rita Famos, risponde per il quotidiano elvetico Réformés alle questioni etiche sollevate da questa situazione e agli interrogativi di giustizia posti dal mondo della speculazione finanziaria.

Che cosa ne pensa della crisi di Credit Suisse?
«Credit Suisse è un importante datore di lavoro per migliaia di persone in questo Paese. Mi metto nei panni di quelle persone che devono andare a lavorare in una situazione di tale incertezza. E sono inorridita nel vedere che gli attori economici possono diventare così giganteschi da mettere a repentaglio la nostra intera economia e mettere sottosopra la politica».

Non è scandaloso che la Confederazione inietti miliardi di dollari nell’economia in un momento in cui la povertà in Svizzera (secondo gli ultimi dati del Centro sociale protestante) non è mai stata così alta?
«Per il momento si tratta solo di garanzie. Nessuno ha immesso denaro che appartiene alle assicurazioni sociali. Posso capire che una somma così elevata sia uno shock per molte persone. È difficile immaginare tali importi. Ma questa somma rappresenta una garanzia, non è stata spesa. Non contrapponiamo lo Stato sociale all’economia. Entrambi sono necessari per la pace sociale e la prosperità del nostro Paese. Se il Credit Suisse fosse fallito, sarebbe stato molto peggio per la popolazione svizzera e non solo. Il Centro sociale protestante ha sottolineato che la precarietà è ulteriormente aggravata dall’inflazione. È vero però che il caso del Credit Suisse, come altri, ci ricorda quanto libertà economica, fiducia e giustizia siano intimamente legate».

Il mondo della finanza, rappresentato in gran parte dalla piazza finanziaria di Zurigo, non ha forse bisogno di essere riformato in alcuni suoi fondamenti secondo l’etica protestante?
«Posso capire che molti si siano indignati. Ma credo che sia troppo facile puntare il dito contro la morale. Non è certo un atteggiamento che la Chiesa dovrebbe adottare. La colpa è soprattutto del sistema, non dei singoli attori. E, siamo onesti, la Svizzera è uno dei Paesi che hanno beneficiato di questo sistema. Ma spetta alla comunità decidere politicamente quanto potere vuole dare alle grandi banche. Attualmente, la Svizzera ha una banca enorme e quindi un grande rischio che tutti dobbiamo sopportare insieme. Per evitare che una situazione del genere si ripeta, sono necessari la partecipazione politica della popolazione e regole giuridiche chiare».

Quali sono le questioni etiche che vede come risultato di questa crisi?
«Siamo chiamati ad accettare che la nostra razionalità può creare fatti che nessun singolo essere umano può più controllare. Nel 2008 abbiamo imparato come evitare un collasso economico globale. Tuttavia, la nostra capacità di agire preventivamente rimane insufficiente. Ora tutti si ribellano e cercano colpe. Le Chiese non dovrebbero unirsi a questo canone di indignazione, che non ci permette di riflettere insieme sui valori, sulle linee rosse e sulle linee guida da stabilire. Questo è particolarmente necessario oggi. La cappellania ci ha insegnato che è più facile confessare i propri errori e intraprendere il cammino del cambiamento in un clima di fiducia. La “cultura dell’indignazione” crea solo capri espiatori senza fornire una vera soluzione».

Come Chiesa nazionale, come garante di una certa etica, quali parole può portare e difendere nell’arena pubblica?
«Per me non si tratta tanto di dichiarazioni o richieste. La Chiesa svolge un ruolo importante nella società civile. Dobbiamo fare in modo che i rischi che la società civile deve assumersi siano bilanciati in termini di reali possibilità di partecipazione politica e sociale».

Gli osservatori parlano di un danno d’immagine per una certa identità svizzera, soprattutto protestante. Questa identità esiste ancora?
«Si tratta di una certa immagine. Ora viene scalfita. Ma non dobbiamo farne un’identità. Il protestantesimo ha un rapporto ambivalente con il capitalismo, che è stato discusso fin dai tempi di Max Weber. Da un punto di vista etico protestante, tuttavia, non abbiamo intenzione di adottare un atteggiamento quasi divino e di dire a tutti ciò che è giusto. Siamo parte di questo mondo e di questa economia, ne traiamo beneficio e talvolta ne soffriamo. Ma non siamo nella posizione di chi accusa».