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Il futuro oltre il gulag

«Il suo primo ricordo è un’esecuzione. Insieme alla madre raggiunse un campo di grano vicino al fiume Taedong, dove le guardie avevano radunato miglia di prigionieri. Eccitato da tutta quella folla il piccolo riuscì ad aprirsi un varco tra le gambe degli adulti fino a conquistare la prima fila, da cui potè osservare le guardie legare un uomo ad un palo… Shin vide le guardie prendere la mira e fare fuoco tre volte ciascuna; spaventato dal fragore degli spari cadde all’indietro, ma riuscì a rialzarsi giusto in tempo per veder trascinar via un corpo inerte ricoperto di sangue. Nel campo 14, campo di prigionia per i nemici politici della Corea del Nord, era assolutamente vietato radunarsi in più di due persone: l’unica eccezione erano le esecuzioni che venivano utilizzate come momenti educativi».

E’ uscito in questi giorni per Codice Edizioni Fuga dal campo 14, la sconvolgente testimonianza di Shin Dong-hyuk, l’unico uomo nato in un campo di prigionia in Corea del Nord ad essere riuscito a fuggirne. Shin, 32 anni, in questi giorni è in Italia, ospite di Torino Spiritualità, e ha gentilmente acconsentito ad incontrarci.

E se troppe volte i termini “inferno in Terra” sono abusati, specie dai mezzi di informazione, viene difficile non utilizzarli in questa occasione, travolti dall’emozione di un racconto che sembra essere catapultato in questi tempi da passati remoti, e che invece vive di pagine nuove ogni giorno. Shin Dong-hyuk è nato all’interno di un campo di lavori forzati riservato ai dissidenti politici, figlio di una coppia cui era consentito dormire insieme due notti all’anno quale ricompensa per il lavoro prestato.

E a domandargli se nei campi di lavoro si può essere bambini risponde che «no, proprio no. Come viene vissuta l’infanzia dal resto del mondo l’ho scoperto dopo la fuga. Nei campi non esiste nulla di simile. Bambine e bambini, una volta capaci di reggersi sulle proprie gambe, diventano strumenti per il funzionamento delle strutture, vengono spremuti fin dai primissimi anni di vita. Non ci sono giochi, non vi è possibilità di socializzare. I neonati sono figli di criminali per cui essi stessi lo sono, il loro sangue è in qualche modo infetto. Non esistono trattamenti miti, solo lavori forzati anche per loro. Ho letto di recente le storie dei gulag sovietici in cui di norma i nati all’interno dei campi venivano allevati fuori. In Corea no, siamo oltre, la crudeltà è imparagonabile. In fondo per il regime la pena di morte viene sostituita dai lavori, prestando la propria carne e le proprie ossa alla sua causa».

Nessun sentimento è possibile, solo il terrore è ammesso da un regime che alimenta se stesso in questa maniera, lasciando l’intero popolo nella più totale ignoranza di cosa esista fuori dai propri confini. E nei campi, che alcune stime dicono contenere circa 150 mila prigionieri, tutto ciò è amplificato all’ennesima potenza. Il padre, sebbene viva nello stesso campo non può quasi mai essere visto, la madre e i fratelli vengono considerati soltanto come rivali per la conquista dell’unico cibo disponibile: ratti, rane, radici, una manciata di riso. Le giovani menti vengono alienate a tal punto che quando Shin, tredicenne, sente il fratello e la madre parlare di un tentativo di fuga, che se scoperto avrebbe portato alla fucilazione di tutti i membri della famiglia secondo la prima delle dieci regole del campo, non esita a denunciarli alle autorità, nella speranza di ricevere più cibo o minori vessazioni. Sarà invece torturato per mesi e costretto con il padre ad assistere alla pubblica esecuzione di sua madre e suo fratello.

L’idea della fuga matura dopo aver ascoltato i racconti di un altro prigioniero, che per un periodo aveva vissuto all’estero, e che sarà suo sventurato compagno di evasione. Sarà del corpo dell’amico Park, morto davanti ai suoi occhi folgorato dall’alta tensione delle recinzioni al momento di scavalcare, che Shin si servirà per oltrepassare le barriere limitando gli effetti delle scariche elettriche. «E’ stato un bisogno primario, quello del cibo, il principale motore che mi ha spinto a tentare la fuga. Sentire i racconti di cibi sconosciuti e la possibilità di mangiare senza restrizioni sono stati la vera molla che mi ha fatto superare tutte le paure».

Abbiamo letto del suo desiderio di incontrare papa Francesco ma durante l’intervista scopriamo con curiosità che Shin, una volta uscito dalla Corea del Nord, è diventato protestante, presbiteriano per l’esattezza: «Ho espresso la volontà di incontrare le principali autorità religiose perché la loro voce, molto ascoltata, possa alzarsi per denunciare le incredibili sofferenze che il mio popolo sta patendo a causa della dittatura che dura ormai da troppi decenni. Loro, come le molte personalità politiche che sto incontrando in questi anni, possono fare molto per rendere noto che al mondo esiste ancora un Paese che sistematicamente uccide i suoi figli”. Ecco, perché il mondo ha fatto così poco in questi anni, e solo ora grazie alla sua testimonianza l’Onu ha deciso di indagare sui crimini del regime nordcoreano? “Io credo che un percorso si sia avviato, e le reazioni piccate e oscurantiste del dittatore Kim Jong-un da Pyongyang testimoniano che una qualche breccia si sta aprendo».

Come vede il suo futuro? «Il mio futuro deve ancora iniziare. Il sogno è di tornare in Corea del Nord, ma deve essere una nazione nuova, in cui mai più si ripetano le barbarie del campo 14».

Foto copertina: Paolo Ciaberta