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Dal Mali alle Valli valdesi, in viaggio per ricominciare

Lamin Bah crede in Allah, è nato a Kayes, est del Mali, al confine col Senegal e ha vissuto a Gao, estremo ovest, fino a quando i ribelli islamisti del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad non hanno portato la guerra (l’avevamo approfondito qui). Così è fuggito. Suo padre è morto e lui ha deciso di andare a cercare lavoro all’estero per mantenere la madre e le sorelle rimaste a casa. Era l’aprile del 2012. È andato in Niger ad Agadez dove ha fatto il muratore per tre mesi finché il lavoro non ha cominciato a scarseggiare. Gli dicevano che in Libia si lavorava bene, allora ha pagato 70 dollari per viaggiare con altri 35 su una jeep e arrivare a Sabha, ma nel viaggio ha perso i documenti. In Libia non era come gli avevano raccontato. In Libia, ora, i neri sono molto discriminati: vengono minacciati, se hanno un lavoro vengono ricattati e costretti a pagare un pizzo e sono minacciati con le armi. A Sabha, nel sud, l’unico lavoro che ha trovato Lamin è stato quello di aiutare i ribelli a nascondere le armi nel deserto per evitare i controlli dell’esercito. Un giorno la polizia lo ha pescato, lo ha arrestato e lo ha portato nelle carceri di Tripoli. L’hanno messo in una cella di sei metri per sei con altre trenta persone: «Il cibo era pessimo, mangiavamo due volte al giorno le uniche due volte in cui uscivamo da quella cella. Dormivamo per terra su dei materassini, e di notte un fastidioso animaletto bianco veniva a mangiarci la pelle della pancia. Due, tre volte al giorno i poliziotti libici entravano nella cella e ci picchiavano senza motivo». Dopo sette mesi di questo inferno, una notte i poliziotti sono entrati nella cella: «ci hanno incappucciati e caricati a forza su dei pick-up, eravamo in dieci, stipati come sarde, e ci hanno scaricato sulla costa. Mi son trovato per la prima volta davanti al mare, non l’avevo mai visto prima. Ci hanno obbligato a bastonate a salire su un gommone, due colpi in testa e uno alla spalla. Io non volevo, ero terrorizzato, perché non so nuotare». 

Lamin è sopravvissuto, non è uno dei 21.439 morti nel Mediterraneo degli ultimi vent’anni; non è morto annegato e neanche di paura. Ha passato sette giorni sul gommone e gli ultimi due non ha mangiato né bevuto perché le scorte erano finite. È arrivato a Lampedusa il 10 maggio 2013. «A Lampedusa mi hanno curato per tre giorni in un ospedale del campo le ferite alla testa e alla spalla che mi avevano fatto i poliziotti libici. Hanno preso i miei dati e dopo 26 giorni mi hanno imbarcato su un aereo per Roma». Erano 22 sull’aereo e sono andati tutti al Centro di accoglienza per richiedenti asilo, Cara, di Castelnuovo di Porto, il più grande d’Italia, che ospita oltre 1200 persone. 

«Ho passato un anno a Castelnuovo, sono stato bene, mi hanno comprato dei vestiti, mangiavo bene, avevo letti comodi, studiavo italiano due giorni a settimana, avevamo anche una card che ci permetteva di entrare e uscire a nostro piacimento e l’organizzazione che lo gestiva ci dava 65 euro al mese». Una nuova cooperativa ora gestisce il Cara di Castelnuovo: è l’Auxilium, che ha vinto il nuovo appalto e ha tolto la minima elemosina di 65 euro al mese provocando i forti scontri del giugno scorso che hanno generato fermi e cariche. «Il 25 giugno 2013 sono andato con il direttore di allora, Gianluca, a fare richiesta di asilo politico e lì mi hanno preso le impronte digitali. Il 7 gennaio sono stato sentito dalla commissione, mi hanno fatto molte domande sulla mia storia, sulla mia situazione e sul perché facevo richiesta. Il 15 giugno 2014, dopo quasi un anno di attesa, mi è arrivato il parere favorevole: permesso di soggiorno concesso fino al 12 giugno 2015».
Nel giugno scorso Lamin ha deciso che voleva andare via da Castelnuovo e cercare lavoro altrove per  formarsi. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) ha accolto la sua richiesta e l’ha inviata al progetto Sprar gestito dalla Diaconia valdese e dal comune di Torre Pellice. 

Lamin arriva nelle Valli a luglio di quest’anno insieme ad altri venti richiedenti asilo. Lui e altri 13 sono ospiti a Villa Olanda e 7 maliani a Torre Pellice nelle strutture di via Angrogna. Provengono dal Mali (11), Nigeria (1), Guinea Bissau (1), Gambia (7) e Repubblica Centrafricana (1). Lui è l’unico ad avere avuto il riconoscimento di “permesso di soggiorno per motivi umanitari”. 
«Qui si sta bene, molto. Siamo ben seguiti e siamo in una bella struttura. Facciamo corsi d’italiano, giochiamo a pallone e andiamo in cerca di lavoro. Qualche volta lo troviamo anche, ma io vorrei avere più momenti di tirocinio e formazione lavoro», mi racconta alla fine della lunga chiacchierata.

«L’inserimento lavorativo è il fulcro della buona riuscita di un progetto d’accoglienza – dice Debora Boaglio, operatrice del progetto Sprar della Diaconia valdese – le difficoltà linguistiche e la scarsa domanda di lavoro sono degli ostacoli che richiedono un grande sforzo sia da parte dei beneficiari sia da parte della comunità d’accoglienza, a maggior ragione se si considera che per legge durante i primi sei mesi di permanenza in Italia, a partire dal loro primo permesso di soggiorno, i richiedenti asilo non possono lavorare». 
«Il 24 gennaio del prossimo anno dovrò andare via da Villa Olanda, trovarmi un casa – conclude Lamin – Io non voglio andare via dalle Valli perché qui sto bene e mi piacerebbe trovare un lavoro per potermi permettere l’affitto di una casa, voglio imparare bene l’italiano e lavorare». Buona fortuna Lamin, te la meriti.