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Le chiese in prima linea contro l’ebola

Mentre cresce anche in Europa il livello di allerta sul virus Ebola, con il primo contagio di un’infermiera spagnola, che segue quello dell’uomo morto negli Stati Uniti, continuano i disperati appelli e le azioni sul campo delle varie chiese coinvolte in Africa nel tentativo di arginare il dilagare dell’epidemia. Act Alliance, rete internazionale di chiese e organizzazioni umanitarie collegata al Consiglio Ecumenico delle Chiese, ad esempio in Sierra Leone, in collaborazione con il Ccsl, il Consiglio delle chiese della Sierra Leone che raggruppa 18 denominazioni protestanti del Paese, ha avviato una massiccia campagna di sensibilizzazione nei confronti dei fedeli, e continua a lamentare la mancanza sia di medicinali che di materiale di prima necessità e di semplice igiene (guanti, mascherine) che limiterebbero il rischio di contagio.

Il numero dei morti ai primi di ottobre è salito a 678, secondo le stime dell’Emergency Operations Center; una cifra allarmante che va ad aggiungersi agli oltre 3.879 vittime accertate in Guinea, Sierra Leone, Nigeria e Liberia. In tutta l’Africa occidentale, secondo i dati Oms, i morti dell’epidemia (al 5 ottobre) sono 3879 e il numero complessivo dei casi confermati e sospetti ha raggiunto 8.033.

Ne abbiamo parlato con il vescovo John K. Yambasu della Chiesa Metodista Unita della Sierra Leone, a capo di una task force interreligiosa, che riunisce leader cristiani e musulmani, costituita lo scorso 11 luglio proprio per combattere l’Ebola.

Qual è la situazione oggi? A che punto è il contagio?

«In questo momento la situazione dell’Ebola in Sierra Leone è terribile e senza speranza. La gente vive nella paura, nel dolore e nella confusione perché le persone continuano a morire e nuove infezioni sono registrate ogni giorno. Le strutture sanitarie nel Paese sono completamente collassate e non sono quindi in grado di gestire la crisi. Molti ospedali sono chiusi e molti operatori sanitari statali si sono rifiutati di andare al lavoro per paura di contrarre la malattia. Questo è a causa del crescente numero di morti fra medici e infermieri nel Paese, soprattutto nei servizi sanitari del governo. Tuttavia, la presenza della comunità internazionale, di Medici senza Frontiere, dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’Unicef e l’aiuto di altre nazioni, fra cui Cina, Regno Unito e Cuba, dà alla gente qualche speranza che il virus sarà messo sotto controllo in un futuro prossimo».

Che ruolo hanno le chiese nella lotta contro la malattia?

«In un paese in cui c’è una perdita totale fiducia nella capacità del governo di contenere il virus, la chiesa rimane una grande speranza per il popolo. Dal momento che il focolaio della malattia si è verificato nel maggio di quest’anno, la Chiesa Metodista Unita è stata in prima linea nella battaglia per debellare l’Ebola. Siamo stati coinvolti in una campagna nazionale di sensibilizzazione e formazione sulla prevenzione del virus attraverso radio, tv, carta stampata; comunità dopo comunità portiamo avanti progetti volti ad accrescere la consapevolezza della malattia e aiutare le persone a capire come prevenire il contagio. Abbiamo bisogno di risorse per comprare due ambulanze per i nostri ospedali, e poi l’equipaggiamento protettivo personale, medicine e trattamenti per la prevenzione e la cura dell’Ebola, e abbiamo bisogno di fondi per pagare gli stipendi e l’indennità di rischio degli operatori sanitari che sacrificano la loro vita quotidiana per contenere la malattia e portare speranza e guarigione alla gente. Abbiamo bisogno di fondi per istituire centri di accoglienza in due dei nostri ospedali e per rafforzare i programmi di formazione sulla prevenzione e contenimento del virus».

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Quali aiuto vi stanno arrivando dall’estero e dalle chiese?

«Al momento stiamo ricevendo sostegno finanziario e logistico dall’Umcor, il Comitato di soccorso dei metodisti uniti, e da altre chiese sorelle negli Stati Uniti e dalla Norvegia. Il sostegno finanziario ci aiuta nell’ambito della formazione continua degli operatori sanitari della chiesa metodista sulla sensibilizzazione, sostegno e lavoro in rete sulla prevenzione dell’Ebola in tutto il paese. Il supporto logistico arriva in gran parte sotto forma di attrezzature per la protezione individuale: guanti, maschere per il viso, sovrascarpe e altri materiali per tutelare la salute degli operatori che si occupano dei pazienti».

A suo avviso, in Europa c’è una percezione corretta del pericolo? O è sottostimato?

«Il virus è stato per lungo tempo sottovalutato. L’Occidente pensa che l’Africa sia molto lontana e che quindi non ci sia un grave pericolo. Ma da quando la malattia ha raggiunto vaste regioni dell’Africa occidentale e il trasporto aereo ha reso tutto il mondo un villaggio, il rischio che l’Ebola attraversi gli oceani sta diventano ogni giorno più reale, come dimostra il caso riscontrato negli Stati Uniti. Per questo mi appello a tutto il mondo, specialmente ai paesi ricchi, perché impieghino le loro risorse per aiutarci ad sradicare il virus».

Di che cosa avete bisogno per far fronte all’emergenza?

«La Sierra Leone, come dicevo prima, ha disperatamente bisogno di ogni tipo di aiuto, dall’attrezzatua personale alle ambulanze, e di finanziamenti per combattere questa malattia terribile. Cibo, acqua, vitamine e altri integratori alimentari sono necessari per i pazienti ricoverati nei centri di isolamento sparsi in tutto il paese. E soprattutto gli ospedali e i centri per la salute che sono stati chiusi per il rischio di contagio devono essere riaperti e i dottori e le infermiere incoraggiati a ritornare e a curare le persone».

L’Ebola ha cambiato le vostre abitudini quotidiane, a casa e in chiesa?

«Sì, l’Ebola ha drammaticamete cambiato le abitudini sociali e la vita religiosa delle persone. Una delle prime avvertenze per la prevenzione è la regola ABC: Avoid Body Contact, evita contatti fisici. Gli abitanti della Sierra Leone stringono le mani a tutti; in più noi siamo un popolo affettuoso: l’Ebola ha cambiato tutto questo, la gente non si stringe più la mano a lungo e non si abbraccia. Durante i culti non ci scambiamo più il “segno di pace” ma ci mettiamo la mano sul petto vicino al cuore e facciamo un leggero inchino all’altra persona. Dopotutto, la pace non viene dalla mano, ma dal cuore. In una nazione in cui più del 80% delle persone non ha accesso all’acqua corrente, c’è bisogno di una strategia supplementare per il lavaggio delle mani: questo è certamente uno dei motivi della rapida e ampia diffusione del virus. Un altro effetto del virus è che in tutto il Paese sono state proibite le riunioni pubbliche: niente funerali, partite di calcio, discoteche. Dal punto di vista economico, molti imprese sono state chiuse lasciando la gente a casa senza lavoro; tutte le scuole sono stati chiuse nel tentativo di contenere la diffusione del virus: nessuno sa quando saranno riaperte e questo mette l’educazione dei nostri figli a rischio. Il modo rapido e facile in cui la malattia si è diffusa ha causato un alto livello di paura e stress fra le persone. Molti malati muoiono nei centri di isolamento a causa della fame: ci vorrebbe soltanto un po’ più di attenzione per riuscire a dare loro abbastanza cibo e acqua. Inoltre, l’elevato tasso di mortalità tra i lavoratori della sanità hanno gettato un’ondata di impotenza e di disperazione nel paese».

Foto: “Kenema Hospital Sierra Leone Ebola” di LeasmharOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.
2014 ebola virus epidemic in West Africa” by Mikael Häggström. Also updated by BrianGroen. Esperanto version included in separate layer by Piet-c. – Own work. Licensed under CC0 via Wikimedia Commons.