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Dare la vita o perderla, le donne kamikaze in medio oriente

Lunedì scorso tutti i principali giornali e agenzie di stampa raccontavano dell’azione compiuta da una combattente dell’Ypg, le Unità di protezione popolare del Kurdistan siriano: la donna aveva infatti compiuto un attacco suicida contro una postazione dello Stato Islamico nei pressi di Kobanê provocando un numero imprecisato di vittime. Da quel momento in poi è emerso con forza un fenomeno all’apparenza unico, quello delle donne in guerra in Medio Oriente.

Stiamo parlando di una delle dimensioni più fortemente caratterizzanti dei movimenti curdi, a partire dal Pkk in Turchia fino ai peshmerga dell’Iraq.

«Quando il Pkk ha iniziato a lottare per i diritti dei curdi – ci racconta Yilmaz Orkan, membro della Rete Kurdistan – il suo leader, Abdullah Öcalan, ha capito una cosa: se in Medio Oriente si continuano a dare ruoli soltanto agli uomini, anche nella lotta, non si potrà mai andare avanti, mai portare democrazia, e non si riuscirà mai a costruire un sistema di diritti».

È dello stesso avviso la comandante del Pkk Ronahi Serhat, uno dei membri storici del partito: «Una delle prime cose che si impara nei movimenti curdi è rispettare le donne. Un tempo avevamo un peso molto basso all’interno della società, ma le cose sono cambiate anche grazie alla lotta politica e militare».

C’è anche chi non si è stupito nel leggere questa notizia, perché da tempo indaga sul ruolo delle donne nei conflitti. Parliamo di Noa Bonetti, autrice del libro Io, donna kamikaze, edito da Iris4. All’inizio del suo lavoro, alcuni anni fa, l’intenzione era quella di raccontare il fenomeno dei combattenti kamikaze nei vari scenari di conflitto, ma, racconta, «nelle ricerche che ho compiuto per il libro ho scoperto che, diversamente da quanto pensavo, erano coinvolte parecchie donne». 

Nel libro si raccontano le storie di 43 donne che, in nome di un ideale, hanno sacrificato la propria vita o l’hanno messa a serio rischio. Soltanto due tra le protagoniste sono sopravvissute. «Una – racconta l’autrice – ora vive nell’anonimato in uno stato europeo dopo aver cambiato anche la propria fisionomia per paura di ritorsioni nei suoi confronti. L’altra persona avrebbe voluto tirarsi indietro prima dell’esplosione, ma non le è stato possibile perché la bomba non era controllata da lei. Ne è uscita viva ma fortemente menomata».

Guardando ad ogni singola storia, è naturale pensare che questi gesti vengano compiuti perché «non vedono un futuro nella loro vita, vengono inglobate in processi e spirali di violenza da cui è difficile uscirne vive, arrivate a certi livelli». Ma se andiamo verso la dimensione globale, certamente «è difficile concepire che una donna, cioè colei che dà la vita, possa togliersela».

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