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Dov’è la lotta alla mafia?

Dopo 22 anni dalla strage di Capaci sono stati condannati all’ergastolo due boss mafiosi che ne furono i mandanti, il cerchio continua a stringersi intorno al clan di Matteo Messina Denaro, come testimoniano gli ultimi 16 arresti, e la lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia ha conquistato altre 40 persone arrestate e la testimonianza di un rito di affiliazione al clan. Abbiamo letto da più fonti queste notizie, ma come possiamo leggerle in un’ottica più ampia nella lotta alla malavita organizzata di stampo mafioso nel nostro paese? Ne abbiamo parlato  con Claudio La Camera, Project coordinator sui beni confiscati dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine.

Come commenta le notizie su queste operazioni?

«Sono tutte operazioni in parte già annunciate. Negli ultimi anni c’è stata una grande attenzione intorno a Matteo Messina Denaro, si sapeva che il cerchio si stava stringendo di fronte alla figura di questo latitante; stesso discorso per la ‘ndrangheta in Lombardia. Sono risultati positivi e sono importanti da dare alla popolazione, ma non ci sono novità rispetto a quello che è successo. Si può però riflettere sui risultati dell’attività antimafia: siamo sempre più in ritardo rispetto a come il fenomeno mafioso si espande e trova strategie di sopravvivenza, questo è il vero problema».

Come leggiamo queste notizie in relazione ai grandi appalti del nord, come Tav o Expo 2015?

«Da un lato è normale che le mafie seguano i soldi, si occupano di questo. Dall’altro lato dobbiamo uscire dall’atteggiamento per cui quello che succede in Italia è autoassolutorio per gli altri Paese e noi siamo la pecora nera del mondo. Non è così. In Europa ci sono centinaia di organizzazioni criminali e ci sono casi di corruzione e infiltrazione in paesi che noi pensiamo all’avanguardia e trasparenti. In più l’Italia ha la presenza delle organizzazioni criminali di carattere mafioso che sono particolari, perché hanno connotazioni culturali, come ci dice il rito del giuramento di cui abbiamo letto. Il legame con il territorio a tutti i livelli della società rende il fenomeno più complesso. Ma siamo sempre allo stesso punto, tutta la legislazione antimafia è una legislazione di emergenza: le leggi non sono state fatte perché erano in agenda politica, ma come risposta ai fenomeni eclatanti. Questo deve farci riflettere: continua a non esserci un’attenzione di carattere culturale e politica». 

La politica guarda da un altra parte, quindi?

«Gli interessi sono talmente forti, che è evidente. Non si può nemmeno più parlare di infiltrazione mafiosa, ma di contiguità. Parallelismo a tutti i livelli e in tutti i settori della società. Possiamo dire che c’è l’uso sociale dei beni confiscati, un movimento di società civile: è vero. Ma nel frattempo sono passati trent’anni dalle stragi, tante persone sono state uccise, l’identità delle mafie è cambiata totalmente, sono diventate organizzazioni globali; non perdiamo la speranza, ma bisogna essere realisti: veramente abbiamo ottenuto dei successi? Ho dei seri dubbi. L’unica possibilità è combattere queste organizzazioni mafiose in un’ottica globale, perché le mafie sono più avanti».

Che ruolo ha l’informazione in tutto questo?

«Penso che se l’informazione riducesse della metà le notizie giudiziarie e desse più spazio all’attività di uomini e donne e di associazioni che operano quotidianamente sul territorio contro le mafie sarebbe meglio per tutti. Molte testate danno il 70% del loro spazio agli arresti e all’attività giudiziaria: non serve a nulla, se non forse a costruire mappe concettuali per cui il criminale e sempre l’altro e non sono io. Non si trasformano le notizie in coscienza critica, ruolo che spetterebbe all’informazione, e anche su questo dovremmo fare una profonda riflessione: l’informazione ha un grande ruolo e può sostenere la battaglia culturale contro il fenomeno mafioso».

Foto via Flickr