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Uno strano concetto di “proteggere e servire”

Il 9 agosto 2014 un ragazzo afroamericano di 18 anni, Michael Brown, è stato ucciso da un poliziotto. Il ragazzo era disarmato e la dinamica dei fatti è stata molto confusa negli ultimi mesi. Casi simili non sono rari in diverse città degli Stati Uniti, e ora il grand jury ha deciso di non incriminare il poliziotto che ha sparato. Appena la notizia è stata divulgata, sono scoppiate le proteste della popolazione a Ferguson e in altre zone degli Stati Uniti, come New York, Los Angeles, Oakland, e in altre città. Abbiamo commentato la notizia con Luciano Kovacs, segretario del World Student Christian Federation per il Nord America, che si trova a New York.

Come ha letto queste notizie?

«Innanzitutto non sono assolutamente sorpreso rispetto alla decisione del grand jury, una decisione che molti di noi si aspettavano, purtroppo. L’ennesima prova di come questi omicidi di giovani uomini neri nelle città statunitensi siano un enorme problema e siano il risultato di quello che viene chiamato “razzismo istituzionale”. Questo non è il primo caso di omicidio da parte della polizia di un afroamericano disarmato. Non c’è sorpresa, dunque, ma enorme indignazione da parte di molte persone di qualunque gruppo etnico. Il problema razziale è endemico negli States: una ferita aperta che ostenta a rimarginarsi. La violenza della polizia appartiene alla “terza onda del genocidio dei neri”. La prima è stata quella della schiavitù, la seconda è arrivata con la segregazione razziale, e la terza con quella che viene chiamata “incarcerazione di massa dei neri”, di cui fa anche parte questo fenomeno di violenza per le strade. Non ci dimentichiamo che quasi sempre questi episodi avvengono per mano di poliziotti bianchi, e la maggior parte di queste giurie sono composte da persone bianche. Questo è un dato».

Quindi più che abuso di potere il problema è razziale?

«È noto che la polizia americana non tratti con i guanti chi ferma per strada, ci sono anche stati molti episodi di corruzione all’interno delle forze dell’ordine. Questo abuso di potere è spesso collegato alle questioni razziali per quanto, spesso, questo aspetto venga negato».

Quanto c’entra il razzismo endemico con i problemi di immigrazione degli Stati Uniti?

«La situazione è molto complessa, ma sono convinto che la “supremazia bianca” sia molto presente, quindi la decisione del grand jury, l’odio efferato nei confronti dei migranti sono collegabili con questa tematica. Un altro fattore che determina molto l’opinione pubblica, anche su queste questioni, è l’aspetto economico: si dice sempre che gli americani votano con il portafoglio in mano. Bisogna essere consapevoli anche del fatto che ci sono fenomeni di disinformazione e di ignoranza, come dappertutto. Mitizzazioni sull’immigrazione che non corrispondono alla realtà, che continuano a esistere per disinformazione. Per esempio raramente attraverso i media si parla di come gli immigrati portino ricchezza all’economia statunitense, o di come queste persone siano pesantemente sfruttate. I fatti degli Stati Uniti vanno letti con molte lenti diverse: il razzismo è una di queste lenti».

Come sta reagendo la popolazione?

«Buona parte della popolazione ha reagito con molte manifestazioni spontanee, a Ferguson e in molte altre città. Ieri mattina il New York Times titolava “dalle pianure alle coste la rabbia si scatena”. Anche a New York ci sono state delle proteste. La reazione violenta della polizia a Ferguson attira i quotidiani e le televisioni, ma ora l’indignazione e la rabbia dovranno sfogarsi in modelli organizzativi politici che portino azioni ben precise. Una delle proposte dei parenti di Michael Brown, ad esempio, è stata quella di mettere delle microcamere addosso ai poliziotti, in modo che in casi del genere la verità venga dalle immagini. Bisogna continuare a fare un lavoro antirazzista nelle comunità, non è solo un problema di leggi, ma di come si affronta il problema, all’interno delle chiese, all’interno delle scuole, e poi, come dicevo, c’è un discorso economico. Sia dal punto di vista della repressione, sia di chi si trova nelle condizioni di essere represso. Come esempio per la questione economica è interessante sapere che durante la presidenza Reagan furono approvati finanziamenti per i dipartimenti di polizia che realizzavano più arresti, dei veri e propri incentivi ad arrestare quindi. Ci sono studi interessanti su questo fenomeno». 

Quanto è probabile che la discussione avvenga davvero?

«Negli Usa, i cambiamenti legislativi avvengono quando la maggioranza dell’opinione pubblica è cosciente del problema e si impegna per forzare i politici. Non è fantascienza, dunque, anche se il cambiamento sociale è sempre lungo e il razzismo negli Stati Uniti è duro a morire. Nel ’98 un ragazzo gay, Matthew Shepard, fu picchiato a morte, un omicidio che fu uno spartiacque e aprì gli occhi sulla violenza verso le minoranze sessuali. Una decina di anni dopo, grazie anche all’attivismo politico della madre del ragazzo, il Congresso passò la legge Matthew Shepard, che persegue i crimini d’odio. Quindi l’opinione pubblica è riuscita a influenzare la politica, anche se sono passati 10 anni e molti sono dovuti morire. Vedremo come questa indignazione sul caso Brown potrà essere canalizzata in un attivismo politico che possa portare a cambiamenti legislativi».

Ascolta l’intervista radiofonica su Radio Beckwith

Fonte copertina: “Ferguson, Day 4, Photo 26” by LoavesofbreadOwn work. Licensed under CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons.