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Le speranze infrante

Una signora di mezza età intervistata a Ferguson, Missouri, non riusciva a fermare le lacrime che le scendevano sulle guance: «Lo sapevo che non l’avrebbero incriminato. Lo sapevo. Ma dall’altra parte, speravo che forse, questa volta, qualcuno avrebbe preso sul serio quando qualche cosa di brutto succede a uno di noi. Ma non è stato così. Che cosa devo raccontare io adesso a mio figlio?».

Dopo una seduta del grand jury che è durata per quasi tre mesi (invece dei due o tre giorni normalmente impiegati), il 24 novembre il procuratore della Contea di St. Louis, Robert McCulloch, ha dato l’annuncio ufficioso: hanno deciso di non incriminare Darren Wilson, il poliziotto bianco che ha ucciso il teenager afroamericano Michael Brown il 9 agosto scorso.

Gli attivisti della comunità adesso hanno delle domande: perché il procuratore ha scelto di fare l’annuncio alle otto di sera, nel buio profondo, quando sarebbe stato molto più difficile per la polizia contenere eventuali manifestazioni violente? Perché le autorità non hanno informato in anticipo il gruppo di esponenti della comunità locale con il quale erano in dialogo da tre mesi con l’idea di gestire insieme la situazione dopo la decisione? Forse i videoclip di una folla furiosa funzionano meglio per sostenere la storia raccontata dalla polizia su una popolazione volubile e tendenzialmente violenta, che si potrebbe solo domare con metodi ed equipaggiamenti militari? Le domande restano.

Il presidente Obama, in un discorso a Chicago la sera del 25 novembre, ha cercato di calmare le acque, misurando le parole con cura. Io avrei voluto un discorso più deciso, ma Obama ha sottolineato alcuni punti essenziali: le reazioni dopo l’annuncio del procuratore non erano solamente il frutto di quella morte e di quella decisione ma anche un’espressione di frustrazione e rabbia per il perpetuarsi di una situazione di disuguaglianza che nessuno ha neanche provato a mascherare. A Ferguson, come altrove negli Stati Uniti, i rapporti fra la comunità e la polizia locale erano pessimi; non c’era fiducia reciproca. Poi ha aggiunto: «Questo non è solo un problema di Ferguson: è un problema americano».

Sì, signor presidente, io sono d’accordo, ma perché nel corso dei tre mesi e mezzo trascorsi dalla morte di Brown non sono state lanciate iniziative per cambiare la cultura organizzativa delle polizie municipali? Perché non è stato avviato un dibattito a livello nazionale sulla militarizzazione della polizia? Perché quella donna a Ferguson, americana come noi, deve piangere e vedere infranta la sua speranza di una giustizia uguale per tutti, una speranza di essere vista anche lei come una persona che conta qualcosa?

Sul verdetto del grand jury della Contea di St. Louis vedi anche, sul sito di Riforma, l’intervista di Matteo De Fazio a Luciano Kovacs, valdese italiano e segretario del Movimento Cristiano student (World Student Christian Federation) per il Nord America.

Foto: “Protesters with signs in Ferguson” by Jamelle Bouie – File available on Flickr here as a set. This is the individual photo.. Licensed under CC BY 2.0 via Wikimedia Commons.