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La lezione di Kobane

Articolo 22:
Ognuno ha il diritto a manifestare liberamente la propria identità etnica, religiosa, di genere, linguistica e culturale.

Articolo 23:
Ognuno ha il diritto di vivere in un ambiente salubre, basato sull’equilibrio ecologico.

Articolo 28:
Uomini e donne sono uguali di fronte alla legge. La Carta garantisce l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza delle donne e incarica le istituzioni pubbliche di lavorare per eliminare la discriminazione di genere.

Non sono brani di una recente costituzione scandinava, ma articoli della Carta Sociale del Rojava, ovvero della regione a maggioranza kurda del nord della Siria, che nel 2013 si è articolata in tre cantoni non contigui, di cui il più noto è Kobane che il regime siriano aveva invece provocatoriamente chiamato Ain al-’Arab, Primavera degli Arabi. Nel nostro immaginario bellico la città omonima è diventata una specie di Stalingrado o Sarajevo per la sua strenua resistenza all’assedio del cosiddetto Stato Islamico, di cui si è in buona parte liberata, ma da cui è stata devastata e che non si sa come si potrà ricostruire.

La Carta o Contratto Sociale è stata adottata lo scorso gennaio 2014 e non è piovuta dal cielo. E’ il risultato di una lunga elaborazione teorica e politica  culminata  in un documento intitolato Confederalismo Democratico, firmato dal leader del PKK [Partito dei Lavoratori del Kurdistan] Abdullah Öcalan, attualmente ancora detenuto nel carcere turco di İmralı nel mar di Marmara. Non va dimenticato il fattivo contributo alla sua cattura da parte dei servizi turchi nel 1998, fornito dal governo italiano presieduto da Massimo D’Alema.

Il Contratto Sociale è sì una dichiarazione di principio, ma segue l’installazione di una Autonomia Democratica nei tre cantoni nel momento in cui Bashar al-Assad ha dovuto alleggerire la presenza militare in loco per affrontare le opposizioni, soprattutto quella dello pseudo califfato dell’auto proclamato califfo Abu Bakr  al-Baghdadi. E noi siamo rimasti folgorati nel vedere che in prima linea c’erano reparti di donne in armi e sorridenti. Abituati come siamo a trasformare frivolmente tutto in merce, non ci siamo stupiti più di tanto del fatto che la multinazionale H&M abbia subito proposto una linea fashion ispirata alle divise di queste donne. Che sono, nella stragrande maggioranza, musulmane sunnite, come lo sono i kurdi, e tuttavia non dedite all’empia devozione dei correligionari dell’ISIS che, gravati dal loro maschilismo onanista, le avrebbero ridotte a brandelli se catturate. Una soluzione che erano in molti ad augurarsi, non solo le bande jihadiste, atterrite dalla potenza simbolica oltre che militare delle brigate femminili, ma anche il governo turco di Erdogan, che confidava nel lavoro sporco fatto dallo “stato islamico”  nell’annientare l’autonomia kurda, da decenni spina nel fianco del nazionalismo turco, irakeno, siriano… Non è andata così.

Ci hanno sbalordito queste donne combattenti, i loro compagni guerrieri, i peshmerga kurdi irakeni arrivati, un po’ in ritardo e non del tutto convinti, in loro sostegno. Forse dovremo anche applicarci allo scioglilingua delle loro appartenenze: YPJ, Unità di Protezione delle Donne, branca del YPG, Unità di Protezione del Popolo, fondate dal PYD, Partito dell’Unione Democratica, affiliato al PKK, creato, come si diceva sopra, da Öcalan e, va ricordato, da Sakine Cansiz, figura storica di femminista e militante kurda. Uccisa a sangue freddo a Parigi nel Centro di Informazione del Kurdistan in rue Lafayette il 9 gennaio 2013, insieme ad altre due attiviste, Fidan Dogan e Leyla Soylemez. C’è un esecutore, ma siamo ancora in attesa di sapere chi sono i mandanti del triplice assassinio. Je suis Sakine o no?

Kobane è dunque entrata nella nostra costellazione emotiva. Ci può far del bene ricordare che è stata fondata da armeni e assiri (c’è stato un genocidio assiro) in fuga dalla persecuzione turca, cui anche le popolazioni kurde diedero il loro supporto. La storia, si sa, non ama i colori netti, tutto bianco/tutto nero. Se riuscissimo a non trasformare Kobane e le sue donne in una ennesima  abbagliante icona a rinfrancare il nostro scontento, renderemmo un servizio a queste donne, ai loro compagni, ai loro progetti in odore di futuro, alla loro dimostrazione viva e fattuale della rovinosa inconsistenza, a cent’anni di distanza, dell’invenzione del Medio Oriente da parte del colonialismo europeo, e del fatto che i mostri, le faide e i rottami dei buoni propositi creati dagli interventi armati USA e coalizioni volenterose varie, non sono invincibili. Sono terre non solo di dolore e di buio, ma di domani e di felicità.

Qui http://www.uikionlus.com/wp-content/uploads/Confederalismo_democratico.pdf si può leggere il testo del Confederalismo Democratico

Foto di Petar Milošević (Own work) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], via Wikimedia Commons