Gesù, un blasfematore

Questo articolo di Jérôme Cottin, professore di teologia pratica alla facoltà di teologia protestante di Stasburgo, è stato pubblicato sul numero del settimanale protestante francese Réforme il 2 febbraio scorso

La nozione di blasfemia è tanto soggettiva quanto imprecisa, come conferma questa doppia definizione del Petit Robert [famoso dizionario francese, Ndr]: «Parola che oltraggia la divinità, la religione»; «Parole sopra le righe e oltraggiose per una persona o una cosa considerate come quasi sacre».

Si può però dire, senza molti rischi di bagliare, che colui che blasfema è sempre l’altro; le sue parole o le sue espressioni vengono giudicate rispetto a un sistema di rappresentazioni condiviso solo da persone che si riferiscono agli stessi valori di colui che denuncia ma che vengono arbitrariamente poste come universali. L’accusa di blasfemia diventa allora un argomento facile che contribuisce a stigmatizzare l’altro, a rifiutare la differenza culturale o la pluralità religiosa. Essa testimonia di una prima violenza, quella che consiste nel postulare che tutti devono pensare, credere o agire allo stesso modo. Ma essa testimonia anche di altre violenze. Perché l’accusa di blasfemia può essere non solo un modo di rifiutare l’altro ma anche di rifiutare Dio.

Il paradosso della blasfemia. Si potrebbe allora benissimo giungere a un’inversione delle situazioni: il «blasfematore» sarebbe il testimone di una verità trascendente, di una parola autentica su Dio o sull’umano, mentre i suoi accusatori sarebbero i veri «blasfematori». Nel dare ai loro criteri dei valori universali, essi sostituirebbero il loro ego e la grettezza dei loro pensieri a Dio, o ai valori superiori che pretendono di difendere. Nel porre di primo acchito le loro idee come normative, essi esercitano una violenza simbolica contro l’umanità, ma anche contro il Dio che pretendono di difendere.

Può essere utile a questo riguardo ricordare queste parole del pensatore positivista Hippolyte Taine (XIXº secolo»): «La blasfemia dei grandi spiriti è più gradevole a Dio della preghiera interessata dell’uomo volgare». Si trova una citazione quasi identica in Dietrich Bonhoeffer (assassinato dai nazisti nel 1945): «Per Dio, la bestemmia di un empio può essergli più gradevole dell’Alleluia di un devoto!».

Vorrei illustrare questa inversione dei valori (la «blasfemia» come tradimento dei valori umani e spirituali) con l’aiuto di alcuni esempi biblici.

La parola blasfemia è utilizzata solo una volta da Gesù, appunto per dire che il peccato in generale, e la blasfemia in particolare, sono perdonati: «Perciò io vi dico: ogni peccato o bestemmia sarà perdonata agli uomini […]. A chiunque parli contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato» (Matteo 12, 31-32).

Gesù instaura qui un ordine nuovo, in rottura con il legalismo ebraico; è l’ordine del perdono, che egli applica contro se stesso: ogni attacco contro la sua persona (dato che Egli è il Figlio dell’uomo) sarà perdonato. La religione instaurata da Gesù è quella in cui l’amore e il perdono sono le uniche risposte all’odio e alla violenza.

Ma dopo la rottura, la continuità: Gesù si situa anche nella linea del giudaismo biblico, per il quale se c’è un divieto biblico che non tollera alcuna eccezione, questo è quello del Nome di Dio, che non  deve essere invocato «per ingannare» o «per fare del male» (secondo il terzo comandamento del Decalogo). Nel pensiero biblico, pronunciare il nome di Dio è volere avere influenza sulla sua persona, è fare dell’invocazione di Dio un atto magico. Gesù instaura un ordine  nuovo ma si situa al tempo stesso nella fedeltà alla sua tradizione religiosa, quella del giudaismo. Si giunge così a una doppia conclusione:

– non ci può essere blasfemia finché Dio è rispettato nella sua grandezza e nel suo mistero;

– in Gesù, non c’è più alcuna blasfemia possibile dato che tutto è perdonato.

Non è tutto. Troviamo inoltre nei vangeli, per tre volte, un passo in cui Gesù viene denunciato come blasfematore. Con un sottile rovesciamento, questo aggettivo di blasfematore applicato a Gesù ci è presentato dai redattori dei vangeli come un segno della sua divinità. Così, in Luca 5, 21, gli oppositori di Gesù esclamano: «Chi è costui che bestemmia? Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?». Il contesto di questa disputa così come la risposta di Gesù sono molto illuminanti: la blasfemia di Gesù è consistita nel fatto che ha guarito un paralitico perdonandogli i suoi peccati.

Il perdono dei peccati. Ciò che urta i suoi oppositori è il fatto che Gesù abbia pronunciato una parola riservata a Dio: perdonare i peccati. Proprio qui, vediamo che si tratta di due visioni di Dio che si confrontano, una (quella dei sostenitori di una religione legalistica) che cerca di imporsi all’altra (quella di Gesù). Si vede così quanto la nozione di blasfemia sia soggettiva, se non vana, perché una stessa parola e uno stesso gesto sono percepiti come testimonianza dell’azione di Dio per gli uni, e come grave offesa contro Dio per gli altri. Infine, qui la «blasfemia» commessa da Gesù guarisce: è un gesto generoso, molto utile alla società e all’individuo. Le parole conclusive di Gesù non lasciano alcun dubbio: ciò che è stato compreso a torto come blasfemia da alcuni è non solo un gesto altruista e umanitario ma ancor più una prova dell’autorivelazione di Dio. Per mezzo della persona di Gesù, Dio agisce come vuole, ivi compreso con gesti socialmente non conformisti, scomodi o addirittura provocanti. La conclusione del racconto sottolinea che la blasfemia è percepita da molti come un atto di autorivelazione di Dio: «Tutti furono presi da stupore e glorificavano Dio; e, pieni di spavento, dicevano: “Oggi abbiamo visto cose straordinarie”» (luca 5, 26).

Le parole del Sommo Sacerdote. Si ritrova questa opposizione frontale in un altro testo (Giovanni 10, 33): l’identità tra Gesù e Dio è il cuore della fede per gli uni, ma è considerata come blasfemia per gli altri: Gesù non denuncia la blasfemia, egli è la blasfemia.

Un ultimo testo dei vangeli mette Gesù alle prese con la blasfemia, e riguarda meno delle parole da lui dette che la loro interpretazione tendenziosa da parte di una personalità politica. In Matteo 26, 62-65, il Sommo Sacerdote, rappresentante il supremo potere religioso, chiede a Gesù – prigioniero davanti a lui – se egli sia il Messia, il Figlio di Dio. Gesù rispetta la Legge ebraica e risponde molto finemente prendendo cura di non pronunciare il Nome di Dio, il che avrebbe significato infrangere i Comandamenti divini e la Legge del Sinedrio. Il suo interlocutore, dall’alto del suo potere giuridico e religioso, non lo intende allo stesso modo e risponde: «Egli ha bestemmiato» (versetto 65). Ma in realtà è un’accusa calunniosa. Non è semplicemente una questione di interpretazione ma anche di potere.

È colui che ha il potere che decreta la validità del senso.

(Traduzione dal francese di Jean-Jacques Peyronel)

 

Copertina: Il Cristo Pantocratore del duomo di Cefalù, foto di Andreas Wahra, con licenza CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons