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Donne dentro e contro la mafia

Le donne nelle organizzazioni criminali sono vittime o hanno anche ruoli da protagonista? Uccise, perseguitate, rapite, sequestrate in casa perché non parlino ma anche donne che comandano, che tengono in mano i conti della “famiglia”. Se ne parla poco, sui media sono in genere soltanto voci di cronaca che presto vengono dimenticate. Ma da qualche anno sono sempre loro, le donne, a scardinare le famiglie mafiose ribellandosi al diktat omertoso del silenzio: da Lea Garofalo a Giusy Pesce e Maria Stefanelli (di cui Mondadori ha da poco pubblicato la biografia, Loro mi cercano ancora). Un mondo raccontato in un dossier collettivo curato dall’associazione antimafie daSud, che mette al centro le storie inedite delle donne boss e di quelle “contro”, un punto di vista originale sui mutamenti delle relazioni di genere all’interno della compagine mafiosa. Dopo la pubblicazione nel 2011 di Sdisonorate. Le mafie uccidono le donne, che raccontava la storia di oltre 150 donne vittima di mafia, è uscita ora la seconda parte – curata da Angela Ammirati, Cinzia Paolillo, Irene Cortese, realizzata con il sostegno dell’otto per mille della Chiesa valdese ed edita da Terrelibere.org – in cui si approfondiscono invece i ruoli femminili di comando nelle organizzazioni criminali ma che vuole anche essere un omaggio alle donne che si sono ribellate a un destino segnato.


«Abbiamo voluto ricordare donne che in seguito a un lutto, una vicenda privata di dolore, come è successo a Felicia Impastato, madre di Peppino, o Denise Cosco, figlia di Lea Garofalo, hanno deciso di esporsi in prima persona contro la mafia – spiega Cinzia Paolillo, presidente dell’associazione DaSud, una delle autrici del dossier – ma anche donne nate in contesti mafiosi, che hanno iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia, come Maria Concetta Cacciola o Giusy Vitale. Donne che sono uscite da una logica di assoggettamento e hanno iniziato un percorso di autodeterminazione: molte di loro dicono che in carcere hanno trovato la vera libertà, perché finalmente si sono sottratte al controllo della famiglia».

Viene anche messo in evidenza il ruolo di potere che hanno nelle organizzazioni criminali: «le donne non sono sempre sottomesse – spiega Paolillo – così come è cambiato nella società civile, così il ruolo della donna si è evoluto anche nei contesti criminali perché non sono mondi impermeabili. La rigidità dei codici mafiosi, che pure esistono, viene sconfessata di fronte alla necessità di progredire e fare affari». «Bisogna anche dire che c’è stato anche un pregiudizio nei occhi di chi guardava alla struttura di queste organizzazioni: per anni la magistratura non ha indagato le donne perché erano ritenute incapaci di compiere fatti di mafia; pregiudizio che denuncia un certo paternalismo degli organi investigativi. C’è poi da fare un distinguo: nella camorra l’accesso ai ruoli verticistici è più semplice perché si tratta di una mafia più “democratica”rispetto all’ndrangheta e a Cosa Nostra».

Foto via Sdisonorate