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Next church: essere chiesa nel tempo del pluralismo digitale

Next church (possiamo tradurlo con la prossima chiesa, mantenendo la ricchezza dell’aggettivo anche in italiano) è un gruppo interdenominazionale che organizza incontri sul futuro della chiesa. L’argomento di oggi è come essere chiesa in un tempo in cui la comunicazione è sempre più tra schermi, piuttosto che tra volti. La situazione è quella che sappiamo e anche se sui due lati dell’Oceano ci sono delle differenze, in qualche modo sono sfumature: il modello di chiesa che conosciamo è in crisi, come si può notare dalle panche vuote che in una domenica qualsiasi superano quelle piene. Cosa fare per invertire la tendenza? David Lose, preside del seminario teologico luterano di Philadelphia analizza innanzitutto il presente: viviamo in una società che affolla di informazioni la nostra mente oltre le possibilità umane; siamo come una spugna troppo piena d’acqua, e qualcosa si deve pur lasciar perdere… la chiesa, ad esempio. Perché rispetto ad altri stimoli, la chiesa è oggettivamente un po’ fuori sincrono. E non è neppure colpa nostra, in fondo: quale comunità, di fronte al diminuire dei partecipanti non ha cercato di correre ai ripari, ma i tentativi andati a male non hanno fatto altro che aumentare il senso di frustrazione e di fallimento? Cosa abbiamo di meno dei nostri antenati? Almeno tre cose.

Non viviamo più nel tempo dell’obbligo, ma in quello della discrezionalità. Le nostre scelte possibili sono illimitate, un caleidoscopio. Come scegliere, se abbiamo troppe opzioni e troppo poco tempo per provarle tutte? È una pizzeria con un menù sconfinato in cui la chiesa parla la lingua del “devi” (fare, andare, contribuire…) più che quella del “potresti”.

Non viviamo più nel tempo in cui l’identità è ricevuta dal contesto che ci circonda, ma la si costruisce. Proviamo a immaginare quanti canali – televisivi, di youtube – possiamo affastellare per crearci una rete di valori di riferimento. Non è un caso che qui si dica «sono interessato alla spiritualità, ma non alla religione»: in effetti di fonti a cui attingere ce n’è un’infinità.

Siamo in un tempo in cui la tradizione non è più un valore in sé, è stata sostituita dall’esperienza, personale o di gruppo. Pensiamo alla pubblicità: 50 anni fa si vendeva mostrando quanto un oggetto fosse veramente durevole, oggi tutto dev’essere rapido e facile da usare. Di una tradizione (il matrimonio di una regina, padre Pio) al massimo ci possiamo innamorare, non certo farne un punto di riferimento reale.

Si può uscire da questa spirale? Forse. Prima di tutto però riflettendo sulla «regola delle conseguenze inattese»: siamo cresciuti nei secoli avvinti a una monocultura dominante (pensiamo ai nomi dei santi delle strade), adesso siamo in un mondo multiculturale, dove alcune parole non scaldano più necessariamente i cuori. Ne siamo consapevoli?

E poi: ci rendiamo conto che il nostro rapporto con la fede è sempre più “professionale”? Si va dal pastore in cerca di un esperto, come dal dottore e si finisce per avere rispetto per l’esperto ma scavare un solco tra lui e gli altri.

Infine: ci rendiamo conto di quanto il nostro modello di culto sia teatrale (in un mondo che si connette ai video), con una sola persona che parla, vestita in maniera curiosa rispetto a chi lo circonda, che certo non ha il monopolio della verità, ma una voce autorevolissima nell’interpretazione dei legami tra fede e vita?

Detto questo, proviamo a immaginare la prossima chiesa: dove si sa di non sapere, dove la curiosità è un valore. Una chiesa dove l’importante non è “fare di più”, ma coltivare meglio la fantasia, il desiderio di capire cosa ha a che fare Dio con me – ed io con lui. E infine provare a raffigurare la chiesa come disegno di bambini: ci è data la cornice, ma possiamo anche colorare oltre i bordi. Dio non ci condanna.