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Siria dimenticata

Matthieu Rey, storico arabista, professore associato alla cattedra di storia contemporanea del mondo arabo del Collège de France, torna sulla situazione della Siria, in guerra da quasi quattro anni

Che bilancio possiamo stilare, a quasi quattro anni dalla sollevazione contro il regime di Bashar al-Assad?

«Bisogna considerare diversi assi. Il primo è quello delle persone. Un bilancio esatto delle vittime è difficile da realizzare, in quanto tutti gli strumenti statistici sono imprecisi e i fronti e le forme di violenza sono molteplici. Si può tuttavia stimare a non meno di 250.000 il numero delle vittime da marzo 2011. Profughi e rifugiati costituiscono oltre la metà della popolazione, ossia più di dieci milioni di individui. I profughi, coloro che hanno lasciato il paese, sono oltre quattro milioni. Tra uno e due milioni sono in Libano, tra un milione e un milione e mezzo in Turchia, lo stesso in Giordania e alcune centinaia di migliaia in Iraq. I rifugiati, circa sette milioni e mezzo, sono fuggiti dalle violenze ma sono rimasti in Siria.

A livello politico e militare bisogna distinguere i diversi territori. Ci sono coloro che si uniscono alle forze del regime, che si accordano su una cessazione delle ostilità, senza avere necessariamente imperativi politici – la presenza di Bashar al-Assad conviene ed è perfino sostenuta. Dalla parte opposta troviamo un insieme di forze che dichiarano che la premessa di ogni cambiamento sono le dimissioni del presidente siriano, mezzo per far cessare la violenza di massa. Queste forze, tuttavia, raggruppano un insieme composito di opinioni politiche, fatto consueto nei movimenti di resistenza. C’è anche un insieme di attori curdi, ai quali importa prima di tutto la difesa della “curdicità”. Hanno conosciuto ricomposizioni importanti in seguito alle loro lotte contro lo Stato islamico. L’ultimo attore è lo Stato islamico e alcune componenti del fronte al-Nusra. Vogliono istituire uno Stato islamico, che non si sa veramente che cosa significhi, e imporre un sistema basato sulla sharia, la legge islamica. È anch’esso un attore in corso di definizione».

Si parla di “regime” di Bashar al-Assad, ma è un’entità omogenea?

«Bashar al-Assad e i suoi parenti stretti sono sì al potere, ma a livello della Siria si dovrebbe piuttosto ragionare in termini di “sfere di potere” sempre più autonome. All’interno di queste sfere le autorità che rispondono al regime negoziano in funzione dei loro avversari immediati e delle forze presenti, senza necessariamente fare appello a Damasco. Il regime non è più in grado di emettere ordini chiari, a meno che non si tratti di ordinare ritiri di truppe o di tentare di liberare un luogo ben preciso. Non c’è dunque un coordinamento nazionale della politica del regime di Bashar al-Assad e quest’ultimo subisce di più l’influenza di attori che impongono al regime i propri programmi. Penso all’Iran e all’Hezbollah libanese che, indicando quali zone bisogna proteggere per prime, influenzano di fatto le scelte politiche e militari del presidente siriano. Assistiamo dunque, da parte del governo, a una sovrapposizione dei livelli di decisione. Questo smembramento si ritrova d’altronde dappertutto in Siria. Che sia in termini di scambio di popolazione – dove le persone si spostano, dove circolano – di sistemi di scambio – dove ci si può rifornire di cibo, di medicine – o di sistemi guerreschi (dove si trovano le forze del regime, quelle dell’opposizione, le forze curde, quelle dello Stato islamico), assistiamo alla formazione di sottoinsiemi geografici. Ognuno di essi – lo spazio Homs-Hama, lo spazio di Qalamoun, il mondo curdo ecc. – dispone di proprie logiche e dinamiche.

Gli spostamenti come le offensive si svolgono nell’ambito di questo quadro, all’interno di questi sottoinsiemi, piuttosto che su larga scala e coordinati a livello dell’intero territorio siriano».

Esiste ancora una società civile siriana?

«Da marzo 2011 assistiamo a una moltiplicazione di iniziative individuali e collettive che non hanno smesso di riorganizzarsi in funzione dei contesti mutevoli. Semplici individui, agricoltori e farmacisti, nelle parole di Barack Obama, sono a poco a poco diventati imprenditori sociali dalla creatività straordinaria. Alcune di queste organizzazioni riuniscono un numero ristretto di individui in un luogo preciso, altre fino a svariate centinaia su tutto il territorio. Alcune hanno assunto la forma di Ong, secondo i criteri internazionali, altre sono rimaste sotto forma di reti informali. Queste iniziative attestano che la società siriana esiste ancora, che è attiva e si adatta per tentare di far fronte alle difficoltà alle quali la popolazione va incontro: un tetto per dormire, medicine, cure e cibo. Altri gruppi pensano alle questioni politiche, alla formazione ecc. Il campo dell’aiuto alla popolazione ha scatenato una moltitudine di azioni. Questi gruppi hanno potuto far fronte alla gestione di svariate decine di migliaia di persone nel giro di pochi giorni. Questa società civile rigogliosa ha inoltre fatto propria l’idea che, per funzionare in modo efficace, deve essere transconfessionale e transpolitica: sul posto si osserva generalmente la non presa in considerazione, per la cura del ferito, della sua appartenenza politica o confessionale. È una speranza per il futuro».

La situazione umanitaria resta tuttavia critica…

«Sussiste la minaccia di una crisi umanitaria di ben più vasta portata. Da 200.000, possiamo immaginare di arrivare molto rapidamente a 500.000 vittime, non fosse altro che perché siamo a tre anni di degradazione delle condizioni di vita nel paese.

Certe malattie che erano quasi scomparse, come la leishmaniosi, sono riapparse e si sono propagate a causa degli spostamenti della popolazione e del crollo delle capacità di cura. Nel 2015 c’è da temere un drammatico peggioramento delle condizioni di vita già precarie».

Che cosa possiamo attenderci dal 2015 in Siria?

«Sul piano militare ogni previsione è vana, tanto i segnali sono contraddittori.

Bisogna rivolgere l’attenzione soprattutto al fronte sud, dove più che altrove gli eventi potrebbero modificare gli equilibri. Da aprile 2013 assistiamo a una lenta e progressiva conquista di terreno da parte delle forze insorte. Da tre mesi questa tendenza tende a accelerare e mira a prendere le linee di difesa istituite dal regime di Bashar al-Assad per difendere Damasco, la capitale. La perdita della capitale provocherebbe necessariamente un riposizionamento di tutti gli attori locali e stranieri nel paese. La capitale, per il suo peso simbolico, fornisce l’illusione di un regime, quello di Bashar al-Assad come sovrano di tutta la Siria. Ogni attacco importante contro di essa modificherebbe questo punto. Damasco, d’altronde, dallo scorso 25 gennaio conosce una evoluzione significativa, in quanto è entrata nello spazio dei combattimenti con ripetuti scambi di tiri tra le forze del regime che bombardano Duma con artiglieria pesante e questa località che risponde con il lancio di granate. Bisognerà anche tenere d’occhio i territori che fino a ora sono stati relativamente periferici. Penso soprattutto alla zona costiera e allo spazio druso, nella Siria meridionale. Questi territori sono stati fortemente sollecitati per rifornire di uomini l’esercito siriano; costituiscono ancora dei “serbatoi” di uomini. Dall’autunno del 2014 una serie di proteste segnala una stanchezza di questa “riserva”».

E sul piano politico?

«Su questo piano le cose sono molto complicate. Molti analisti omettono di dire che il processo rivoluzionario – per intenderci, ciò che porta una popolazione a sollevarsi contro un determinato regime – resta attivo. Dal 2011 la variabile delle proteste non è cambiata. Questa lotta per la dignità, che si ritrova dall’Egitto alla Tunisia, prosegue in Siria.

Certo, il regime controlla militarmente quasi il 60% del territorio siriano. Ma le radici della sollevazione sono sempre lì e l’occupazione militare dà l’illusione di un controllo inesistente».

(in Réforme, intervista di Louis Fraysse; trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)

Foto Stefano Stranges